di Giuseppina D’Auria
Le sfide poste dal mondo della
produzione alle soglie del terzo millennio mutano lo scenario nel quale la formazione
professionale è chiamata ad operare. In questo modificato contesto, le azioni
formative devono necessariamente
assicurare il raggiungimento di standard di qualità, tali da garantire una
risposta efficace ai bisogni professionali espressi dal mercato del lavoro
senza trascurare quelle che sono le aspirazioni dei lavoratori.
La rilevanza anche quantitativa
che gli investimenti in formazione vanno assumendo in tutti gli ambiti di attività,
fa sì che vi sia una crescente attenzione nei confronti dell’elaborazione di
strategie progettuali metodologicamente fondate, nonché della valutazione e del
monitoraggio dei dispositivi di azione formativa originati dalle medesime
strategie. La qualità del processo formativo, in questa prospettiva, viene
concepita come il risultato della messa in opera degli aspetti qualitativi
insiti negli elementi che compongono il servizio stesso.
Per produrre qualità nella
formazione, secondo questa accezione, è necessario che si rispetti un principio
di qualità nelle seguenti componenti del processo formativo: nelle componenti
della tecnologia formativa in senso ampio; nell’organizzazione; nel sistema di
erogazione; nel modo in cui si costruisce e si gestisce il momento relazionale.
Realizzare interventi di qualità
significa: porre il cliente al centro delle attenzioni; caratterizzare in
termini di competenze la qualità del servizio erogato; gestire e presidiare la
qualità dell’intero processo di formazione; riconoscere che l’acquisizione e la
messa in opera delle competenze sono il risultato di una co-produzione che
mette in relazione contesti e attori; realizzare modalità strutturate di
misurazione.
La ricerca della qualità
richiede, dunque, un approccio multidimensionale ed una vigilanza costante
della coerenza di un insieme di azioni: l’atto pedagogico non può essere
concepito come un atto isolato. La qualità della formazione professionale è il risultato
di una serie concatenata di iniziative che vanno dall’analisi dei fabbisogni
formativi, allo sviluppo dei curricoli e dell’organizzazione della formazione
fino alla valutazione dei risultati.
In generale, tutti gli studi
nazionali parlano di un cambiamento da parte delle imprese nei confronti della formazione
professionale, sia di quella permanente, sia di quella iniziale. Essa assume un
ruolo strategico ai fini della realizzazione degli obiettivi economici
dell’impresa e, di conseguenza, non viene più offerta o acquisita come una
prestazione subordinata, bensì inclusa nella pianificazione dell’impresa
stessa. Ma anche alla luce di queste riflessioni risulta difficile definire in
maniera univoca il concetto di qualità applicata alla formazione. Essa dipende
da diversi fattori quali la natura stessa dei prodotti o dei servizi, il
contesto in cui essi vengono forniti, le aspettative di utenti o fruitori: è,
in pratica, un concetto relativo e pluridimensionale.
E’ comunque fondamentale
sottolineare che le percezioni dell’utente circa la qualità di un servizio, e,
quindi, anche della formazione, derivano sempre da un costante confronto tra le
sue aspettative e l’esperienza effettiva.
L’innalzamento complessivo del
livello di qualità può essere ottenuto attraverso la valorizzazione della
dimensione pedagogico-didattica
dei servizi formativi. La qualità delle attività formative -sia nella formazione
iniziale che in quella continua- dipende non solo dalle aspettative del mercato
del lavoro ma anche da quelle degli utenti: genitori/alunni e dipendenti. E’
possibile asserire che la produzione di qualità del servizio in un qualsiasi
centro di formazione professionale, dipende da tre macro-variabili: le risorse
umane, le tecnologie, l’organizzazione.
Tralasciando tutto il dibattito
sulla qualità nella formazione - che in questo caso ci porterebbe fuori tema -
si può asserire che i concetti ritenuti capaci di rilevare la presenza di una
qualità delle azioni applicabili ai progetti di formazione sono: l’orientamento
dei processi; la corretta messa a fuoco dell’utente; l’assicurazione di qualità
dei processi interni; la verifica costante dello sviluppo della qualità delle
azioni.
Tutto questo discorso diventa
ancor più delicato alla luce della complessa relazione pedagogica che esiste tra
momento formativo di aula ed esperienza pratico-operativa che il giovane -in
contratto di apprendistato svolge sul luogo di lavoro. Non bisogna dimenticare,
infatti, che l’esperienza RQ_ WKH_ MRE è assolutamente preponderante rispetto
all’aula e che i due luoghi di apprendimento tendono a presidiare bisogni di formazione
differenti: la formazione esterna è deputata a formare, prevalentemente,
competenze di base e trasversali; mentre la formazione sul lavoro mira a
forgiare la competenza tecnico-specifica.
Favorire la connessione e la
coerenza tra queste diverse aree di bisogno formativo non è cosa semplice e, ancor
oggi, come si avrà modo di osservare, vi sono molte criticità irrisolte.
Anche rispetto alla valutazione
si pongono problemi di interpretazione. E’ utile ricordare, infatti, che nelle esperienze
di alternanza formazione-lavoro la valutazione viene effettuata attraverso la
verifica degli apprendimenti. Valutare gli apprendimenti significa verificare
quali risultati, in termini di mutamento, ha prodotto nei soggetti un
intervento formativo, ma resta aperto il problema della valutazione delle competenze:
a chi spetta tale compito, come deve essere condotto e sulla base di quali
criteri e standard di riferimento. Tuttavia, l’analisi valutativa
dell’apprendimento e, più in generale, della formazione, viene a delinearsi
come investimento non materiale delle imprese. Una problematica strettamente
connessa alla valutazione della formazione in impresa è insita nel suo non
poter prescindere da considerazioni riguardanti anche le motivazioni e la
disponibilità degli individui interessati dal processo formativo.
La formazione, secondo questa
logica, costituisce, un co-investimento che coinvolge simultaneamente le
persone che si formano e quelle che determinano la messa in pratica delle loro
capacità. La valutazione di tipo economico della formazione parte da un
assunto: che si desideri non tanto “spendere”
quanto “investire”.
Questi anni di attuazione,
dibattito e monitoraggi hanno messo in luce che l’entrata a regime richiede
ancora tempi lunghi e che la dimensione territoriale assume un ruolo cruciale.
Lo stato di attuazione della
riforma che prevede l’obbligo della formazione esterna per apprendisti,
infatti, è caratterizzato da differenti velocità sul territorio nazionale
frutto di differenti tradizioni amministrative e realtà socio-economiche dalle
quali non si può prescindere.
I tempi lunghi necessari per la
realizzazione di questa riforma dipendono da diversi fattori tra loro
correlati: la difficoltà di definire una volta per sempre e inequivocabilmente
l’oggetto della riforma in un mercato del lavoro convulso come quello moderno;
la difficoltà di gestire le variegate tematiche che in essa convergono; la
necessità di consolidare uno stile di governo fondato sul dialogo
inter-istituzionale e non più sulla separatezza amministrativa, l’inadeguatezza
dello strumento in rapporto al terziario caratterizzato da spiccata
flessibilità.
Allo stato attuale i recenti
monitoraggi dell’ISFOL e il dibattito politico-istituzionale consentono di
porre in evidenza alcuni nodi problematici, cui sarebbe necessario far seguire
un nuovo adeguamento normativo, al fine di armonizzare quanto finora
realizzato.
Tra le criticità più rilevanti è
possibile annoverare:
a) la necessità di una politica
formativa di indirizzo nazionale che chiarisca meglio il ruolo di ciascun
soggetto coinvolto, le finalità formative,
le responsabilità politico gestionali, le funzioni e le competenze dei singoli
attori. E’ vero che la forza dell’integrazione sta nella capacità di dialogare
a livello locale ma è anche vero che perché questo possa avvenire senza
frizioni è necessario che vi sia un’insieme strutturato di regole definite e un
sistema di valutazione in grado di garantire omogeneità e trasferibilità su
tutto il territorio nazionale;
b) la necessità di definire in
maniera chiara ed univoca gli standard formativi, le modalità di certificazione
e di riconoscimento dei crediti;
c) le finalità da assegnare al
sistema formativo; occorre pensare ad un sistema formativo multiculturale che porti
a superare l’attuale impostazione centrata su un modello scuolacentrico e che conduca all’affermazione di un vero modello
policentrico capace di riconoscere piena dignità alle modalità di formazione
alternative che possono venire dalla formazione professionale o dal mondo del
lavoro. Il rischio che si profila è quello di inserire nell’attuale crisi che
caratterizza la società della conoscenza, una sorta di modello aziendacentrico, dove la scuola continua
ad essere la depositaria delle teorie, mentre l’azienda resta il luogo della
pratica, del reale e dell’esperienza .
Tra le altre criticità, tuttora
irrisolte, si possono ricordare: la difficoltà a conciliare l’attività
formativa con le esigenze produttive dell’azienda (la modalità di fruizione
preferita dalla maggioranza è, comunque, l’alternanza tra momento
teorico-operativo); la necessità di effettuare un’analisi delle competenze in
entrata che non deve assolutamente essere percepita come una prova; la
creazione di banche dati regionali con l’individuazione del livello di
imputazione del dato e di gestione dell’informazione; la necessità di garantire
un’assistenza tecnica regionale (in tutte le regioni) e magari la presenza di
strutture di coordinamento intermedio (che in parte già esistono, si pensi, ad
esempio, alle Agenzie regionali del lavoro o alle Agenzie di sviluppo locale)
che supporti la creazione della rete, ma, al contempo, anche un’assistenza
tecnica alle regioni che sono rimaste più indietro nel processo di
implementazione.
Altri nodi critici, inoltre,
riguardano le fonti di finanziamento e la formazione del personale preposto al
coordinamento e alla docenza per
questa particolarissima tipologia di utenza per la quale va ripensato
completamene l’approccio e le
metodologie di insegnamento; senza contare, inoltre, i vincoli burocratici e amministrativi
che ancora pesano sul corretto svolgimento di un percorso che deve essere
improntato alla massima flessibilità .
Oggi, tutti gli operatori della
scuola, della formazione e gli stessi imprenditori sono d’accordo in modo
unanime su un punto: il sapere che gli allievi devono poter acquisire nella
scuola per essere autonomi e produttivi nel mondo del lavoro si riassume nel
saper progettare; cioè essere in grado di individuare le variabili essenziali
di un problema in modo da impostare una corretta metodologia per risolverlo.
Questo accordo di fondo presuppone la necessità di uscire dal tradizionale sapere
nozionistico per mettere i giovani nella condizione di imparare un metodo di
apprendimento. Non è chiaro, tuttavia, attraverso quali strategie è possibile
realizzare questo obiettivo volto al trasferimento di meta-competenze
fondamentali per lo svolgimento di un ruolo lavorativo nel moderno processo di produzione.
Sulla scorta delle considerazioni sinora svolte è possibile operare qualche
riflessione sul valore e l’utilizzo del contratto di apprendistato come
politica -e strumento- formativo. L’apprendistato, infatti, è ritenuto, dai più,
il migliore tra i contratti proprio per la sua formazione spiccatamente tecnica
che consente, anche ai giovani con scarsa qualificazione, di accedere -e
rimanere- nel mercato del lavoro, grazie a qualifiche professionali forti.
Dalle evenienze emerse, nondimeno, si possono rilevare due differenti ordini di
problemi.
Innanzitutto, è opportuno
considerare che l’apprendistato non può essere considerato alla stregua di
qualsiasi altro intervento
formativo, bensì necessita di un ripensamento radicale sin dal suo approccio.
Infatti, 120 ore di formazione
esterna sono solo un’appendice dell’esperienza professionale che il giovane svolge
in azienda e non si può pensare che l’offerta sia decontestualizzata rispetto
al suo ambito di formazione primario. Gli esiti di un intervento
decontestualizzato si possono leggere nella chiara avversione e derisione
dimostrata da giovani e imprenditori ma, evidentemente, e ancor di più, anche
nell’inefficacia dell’intervento. Infatti, se non si stabilisce una connessione
(una coerenza) tra il formato e il contesto economico-produttivo locale,
l’efficacia dell’intervento formativo perde tutto il suo valore intrinseco poiché
le competenze acquisite andranno rapidamente disperse con un evidente e
incalcolabile spreco di risorse. Da questo punto di vista, il coinvolgimento,
la responsabilizzazione e il reale accordo delle aziende circa l’utilità e la
validità dei contenuti erogati non è solo questione di stile ma rappresenta una
opzione di sviluppo locale che, tuttavia, non deve essere asservita, né
schiacciata, sulle ristrette esigenze economicoproduttive territoriali, pena il
rischio di comprimere, anziché sostenere processi di innovazione più estesi.
Il secondo ordine di
considerazioni si riferisce, alla questione dello spostamento di competenze dal
centro alla periferia. Nel nuovo quadro istituzionale la Regione viene ad
assumere un ruolo preminente di guida, programmazione, assistenza, monitoraggio
e valutazione. In altri termini, diviene soggetto politico locale. Se prima si
poneva solo come riferimento gerarchico senza che vi fossero legami di alcun
tipo con i co-attori locali, ora, questo non è più possibile. Bensì, alla
Regione è richiesto di assumere quel ruolo necessario a facilitare la
costituzione di una rete stabilmente dialogante nell’ottica di uno sviluppo
collettivo. Si prefigura, per questa via, una sorta di regionalizzazione della
occupazione -così come è avvenuto per le politiche sanitarie ed educative-
caratterizzato da un sistema a due polarità dove coesistono due differenti
livelli di politiche: quelle dello Stato orientate a definire linee di indirizzo
generali, e quelle della regione che assumono un carattere spiccatamente
gestionale.
In questa
prospettiva, tuttavia, forse
maggiore attenzione va posta alla questione della responsabilità dei due attori
e della missione compensativo-perequativa che lo Stato dovrebbe svolgere in
vista di eventuali e sempre possibili fallimenti.
Da tutto ciò, emerge la necessità
di una chiara politica formativa di indirizzo nazionale che definisca in
maniera definitiva il ruolo, le responsabilità, le funzioni e le competenze dei
singoli attori istituzionali. In assenza di un sistema di regole strutturato e
di un metodo di valutazione condiviso, l’unica cosa che si può rilevare è una
sorta di “giungla” delle qualifiche, della formazione e dell’implementazione al
livello territoriale.
In conclusione può essere utile
riflettere sulla lettura critica condotta da alcuni esponenti del mondo istituzionale
e scientifico. Come si può leggere nella sintesi del Libro verde (1994, p. 10)
sulla politica sociale europea, infatti: “il sistema trilaterale dello Stato,
del sindacato e delle aziende, benché sostenuto dai governi e dalle parti
sociali di quei paesi ove esso è correttamente praticato, è ritenuto da altri,
trattandosi di un modello studiato precipuamente per un contesto industriale
meno valido per il futuro, quando è probabile che la creazione di nuovi posti
di lavoro si verifichi piuttosto nel settore dei servizi, soggetti ad
un’evoluzione rapida e costante, e in nuovi settori (solo a titolo di esempio,
quello delle energie alternative o delle tecnologie informatiche e telematiche
dove si lavora prevalentemente per progetti). Si ricordi, inoltre, l’ampia diffusione
di lavori che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere svolti in proprio
attraverso le nuove modalità di lavoro flessibile introdotte prima dalla
riforma Treu (L.196/97) e poi ampliate dalla recente riforma Biagi (L.
30/2003). Se si considera che tali riflessioni sono argomento di dibattito
negli stessi paesi dove l’apprendistato ha fatto storia (si pensi alla
Germania) è inquietante pensare che così tanti sforzi vadano verso un modello
che per alcuni versi appare superato dato il progressivo indebolimento del
settore industriale e, in particolar modo, della manifattura, al quale fa
seguito un declino molto evidente dell’occupazione industriale, legato, in
particolare, all’investimento in tecnologie avanzate. E viene da chiedersi se
il fallimento e le criticità evidenziate dai monitoraggi nazionali non siano
anche il frutto di tale controversa tendenza.
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