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lunedì 14 maggio 2012

LA FORMAZIONE DI QUALITA’ PER GLI APPRENDISTI


di Giuseppina D’Auria

Le sfide poste dal mondo della produzione alle soglie del terzo millennio mutano lo scenario nel quale la formazione professionale è chiamata ad operare. In questo modificato contesto, le azioni formative devono  necessariamente assicurare il raggiungimento di standard di qualità, tali da garantire una risposta efficace ai bisogni professionali espressi dal mercato del lavoro senza trascurare quelle che sono le aspirazioni dei lavoratori.
La rilevanza anche quantitativa che gli investimenti in formazione vanno assumendo in tutti gli ambiti di attività, fa sì che vi sia una crescente attenzione nei confronti dell’elaborazione di strategie progettuali metodologicamente fondate, nonché della valutazione e del monitoraggio dei dispositivi di azione formativa originati dalle medesime strategie. La qualità del processo formativo, in questa prospettiva, viene concepita come il risultato della messa in opera degli aspetti qualitativi insiti negli elementi che compongono il servizio stesso.
Per produrre qualità nella formazione, secondo questa accezione, è necessario che si rispetti un principio di qualità nelle seguenti componenti del processo formativo: nelle componenti della tecnologia formativa in senso ampio; nell’organizzazione; nel sistema di erogazione; nel modo in cui si costruisce e si gestisce il momento relazionale.
Realizzare interventi di qualità significa: porre il cliente al centro delle attenzioni; caratterizzare in termini di competenze la qualità del servizio erogato; gestire e presidiare la qualità dell’intero processo di formazione; riconoscere che l’acquisizione e la messa in opera delle competenze sono il risultato di una co-produzione che mette in relazione contesti e attori; realizzare modalità strutturate di misurazione.
La ricerca della qualità richiede, dunque, un approccio multidimensionale ed una vigilanza costante della coerenza di un insieme di azioni: l’atto pedagogico non può essere concepito come un atto isolato. La qualità della formazione professionale è il risultato di una serie concatenata di iniziative che vanno dall’analisi dei fabbisogni formativi, allo sviluppo dei curricoli e dell’organizzazione della formazione fino alla valutazione dei risultati.
In generale, tutti gli studi nazionali parlano di un cambiamento da parte delle imprese nei confronti della formazione professionale, sia di quella permanente, sia di quella iniziale. Essa assume un ruolo strategico ai fini della realizzazione degli obiettivi economici dell’impresa e, di conseguenza, non viene più offerta o acquisita come una prestazione subordinata, bensì inclusa nella pianificazione dell’impresa stessa. Ma anche alla luce di queste riflessioni risulta difficile definire in maniera univoca il concetto di qualità applicata alla formazione. Essa dipende da diversi fattori quali la natura stessa dei prodotti o dei servizi, il contesto in cui essi vengono forniti, le aspettative di utenti o fruitori: è, in pratica, un concetto relativo e pluridimensionale.
E’ comunque fondamentale sottolineare che le percezioni dell’utente circa la qualità di un servizio, e, quindi, anche della formazione, derivano sempre da un costante confronto tra le sue aspettative e l’esperienza effettiva.
L’innalzamento complessivo del livello di qualità può essere ottenuto attraverso la valorizzazione della
dimensione pedagogico-didattica dei servizi formativi. La qualità delle attività formative -sia nella formazione iniziale che in quella continua- dipende non solo dalle aspettative del mercato del lavoro ma anche da quelle degli utenti: genitori/alunni e dipendenti. E’ possibile asserire che la produzione di qualità del servizio in un qualsiasi centro di formazione professionale, dipende da tre macro-variabili: le risorse umane, le tecnologie, l’organizzazione.
Tralasciando tutto il dibattito sulla qualità nella formazione - che in questo caso ci porterebbe fuori tema - si può asserire che i concetti ritenuti capaci di rilevare la presenza di una qualità delle azioni applicabili ai progetti di formazione sono: l’orientamento dei processi; la corretta messa a fuoco dell’utente; l’assicurazione di qualità dei processi interni; la verifica costante dello sviluppo della qualità delle azioni.
Tutto questo discorso diventa ancor più delicato alla luce della complessa relazione pedagogica che esiste tra momento formativo di aula ed esperienza pratico-operativa che il giovane -in contratto di apprendistato svolge sul luogo di lavoro. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’esperienza RQ_ WKH_ MRE è assolutamente preponderante rispetto all’aula e che i due luoghi di apprendimento tendono a presidiare bisogni di formazione differenti: la formazione esterna è deputata a formare, prevalentemente, competenze di base e trasversali; mentre la formazione sul lavoro mira a forgiare la competenza tecnico-specifica.
Favorire la connessione e la coerenza tra queste diverse aree di bisogno formativo non è cosa semplice e, ancor oggi, come si avrà modo di osservare, vi sono molte criticità irrisolte.
Anche rispetto alla valutazione si pongono problemi di interpretazione. E’ utile ricordare, infatti, che nelle esperienze di alternanza formazione-lavoro la valutazione viene effettuata attraverso la verifica degli apprendimenti. Valutare gli apprendimenti significa verificare quali risultati, in termini di mutamento, ha prodotto nei soggetti un intervento formativo, ma resta aperto il problema della valutazione delle competenze: a chi spetta tale compito, come deve essere condotto e sulla base di quali criteri e standard di riferimento. Tuttavia, l’analisi valutativa dell’apprendimento e, più in generale, della formazione, viene a delinearsi come investimento non materiale delle imprese. Una problematica strettamente connessa alla valutazione della formazione in impresa è insita nel suo non poter prescindere da considerazioni riguardanti anche le motivazioni e la disponibilità degli individui interessati dal processo formativo.
La formazione, secondo questa logica, costituisce, un co-investimento che coinvolge simultaneamente le persone che si formano e quelle che determinano la messa in pratica delle loro capacità. La valutazione di tipo economico della formazione parte da un assunto: che si desideri non tanto “spendere”  quanto “investire”.
Questi anni di attuazione, dibattito e monitoraggi hanno messo in luce che l’entrata a regime richiede ancora tempi lunghi e che la dimensione territoriale assume un ruolo cruciale.
Lo stato di attuazione della riforma che prevede l’obbligo della formazione esterna per apprendisti, infatti, è caratterizzato da differenti velocità sul territorio nazionale frutto di differenti tradizioni amministrative e realtà socio-economiche dalle quali non si può prescindere.
I tempi lunghi necessari per la realizzazione di questa riforma dipendono da diversi fattori tra loro correlati: la difficoltà di definire una volta per sempre e inequivocabilmente l’oggetto della riforma in un mercato del lavoro convulso come quello moderno; la difficoltà di gestire le variegate tematiche che in essa convergono; la necessità di consolidare uno stile di governo fondato sul dialogo inter-istituzionale e non più sulla separatezza amministrativa, l’inadeguatezza dello strumento in rapporto al terziario caratterizzato da spiccata flessibilità.
Allo stato attuale i recenti monitoraggi dell’ISFOL e il dibattito politico-istituzionale consentono di porre in evidenza alcuni nodi problematici, cui sarebbe necessario far seguire un nuovo adeguamento normativo, al fine di armonizzare quanto finora realizzato.
Tra le criticità più rilevanti è possibile annoverare:
a) la necessità di una politica formativa di indirizzo nazionale che chiarisca meglio il ruolo di ciascun
soggetto coinvolto, le finalità formative, le responsabilità politico gestionali, le funzioni e le competenze dei singoli attori. E’ vero che la forza dell’integrazione sta nella capacità di dialogare a livello locale ma è anche vero che perché questo possa avvenire senza frizioni è necessario che vi sia un’insieme strutturato di regole definite e un sistema di valutazione in grado di garantire omogeneità e trasferibilità su tutto il territorio nazionale;
b) la necessità di definire in maniera chiara ed univoca gli standard formativi, le modalità di certificazione e di riconoscimento dei crediti;
c) le finalità da assegnare al sistema formativo; occorre pensare ad un sistema formativo multiculturale che porti a superare l’attuale impostazione centrata su un modello scuolacentrico e che conduca all’affermazione di un vero modello policentrico capace di riconoscere piena dignità alle modalità di formazione alternative che possono venire dalla formazione professionale o dal mondo del lavoro. Il rischio che si profila è quello di inserire nell’attuale crisi che caratterizza la società della conoscenza, una sorta di modello aziendacentrico, dove la scuola continua ad essere la depositaria delle teorie, mentre l’azienda resta il luogo della pratica, del reale e dell’esperienza .
Tra le altre criticità, tuttora irrisolte, si possono ricordare: la difficoltà a conciliare l’attività formativa con le esigenze produttive dell’azienda (la modalità di fruizione preferita dalla maggioranza è, comunque, l’alternanza tra momento teorico-operativo); la necessità di effettuare un’analisi delle competenze in entrata che non deve assolutamente essere percepita come una prova; la creazione di banche dati regionali con l’individuazione del livello di imputazione del dato e di gestione dell’informazione; la necessità di garantire un’assistenza tecnica regionale (in tutte le regioni) e magari la presenza di strutture di coordinamento intermedio (che in parte già esistono, si pensi, ad esempio, alle Agenzie regionali del lavoro o alle Agenzie di sviluppo locale) che supporti la creazione della rete, ma, al contempo, anche un’assistenza tecnica alle regioni che sono rimaste più indietro nel processo di implementazione.
Altri nodi critici, inoltre, riguardano le fonti di finanziamento e la formazione del personale preposto al
coordinamento e alla docenza per questa particolarissima tipologia di utenza per la quale va ripensato
completamene l’approccio e le metodologie di insegnamento; senza contare, inoltre, i vincoli burocratici e amministrativi che ancora pesano sul corretto svolgimento di un percorso che deve essere improntato alla massima flessibilità .
Oggi, tutti gli operatori della scuola, della formazione e gli stessi imprenditori sono d’accordo in modo unanime su un punto: il sapere che gli allievi devono poter acquisire nella scuola per essere autonomi e produttivi nel mondo del lavoro si riassume nel saper progettare; cioè essere in grado di individuare le variabili essenziali di un problema in modo da impostare una corretta metodologia per risolverlo. Questo accordo di fondo presuppone la necessità di uscire dal tradizionale sapere nozionistico per mettere i giovani nella condizione di imparare un metodo di apprendimento. Non è chiaro, tuttavia, attraverso quali strategie è possibile realizzare questo obiettivo volto al trasferimento di meta-competenze fondamentali per lo svolgimento di un ruolo lavorativo nel moderno processo di produzione. Sulla scorta delle considerazioni sinora svolte è possibile operare qualche riflessione sul valore e l’utilizzo del contratto di apprendistato come politica -e strumento- formativo. L’apprendistato, infatti, è ritenuto, dai più, il migliore tra i contratti proprio per la sua formazione spiccatamente tecnica che consente, anche ai giovani con scarsa qualificazione, di accedere -e rimanere- nel mercato del lavoro, grazie a qualifiche professionali forti. Dalle evenienze emerse, nondimeno, si possono rilevare due differenti ordini di problemi.
Innanzitutto, è opportuno considerare che l’apprendistato non può essere considerato alla stregua di
qualsiasi altro intervento formativo, bensì necessita di un ripensamento radicale sin dal suo approccio.
Infatti, 120 ore di formazione esterna sono solo un’appendice dell’esperienza professionale che il giovane svolge in azienda e non si può pensare che l’offerta sia decontestualizzata rispetto al suo ambito di formazione primario. Gli esiti di un intervento decontestualizzato si possono leggere nella chiara avversione e derisione dimostrata da giovani e imprenditori ma, evidentemente, e ancor di più, anche nell’inefficacia dell’intervento. Infatti, se non si stabilisce una connessione (una coerenza) tra il formato e il contesto economico-produttivo locale, l’efficacia dell’intervento formativo perde tutto il suo valore intrinseco poiché le competenze acquisite andranno rapidamente disperse con un evidente e incalcolabile spreco di risorse. Da questo punto di vista, il coinvolgimento, la responsabilizzazione e il reale accordo delle aziende circa l’utilità e la validità dei contenuti erogati non è solo questione di stile ma rappresenta una opzione di sviluppo locale che, tuttavia, non deve essere asservita, né schiacciata, sulle ristrette esigenze economicoproduttive territoriali, pena il rischio di comprimere, anziché sostenere processi di innovazione più estesi.
Il secondo ordine di considerazioni si riferisce, alla questione dello spostamento di competenze dal centro alla periferia. Nel nuovo quadro istituzionale la Regione viene ad assumere un ruolo preminente di guida, programmazione, assistenza, monitoraggio e valutazione. In altri termini, diviene soggetto politico locale. Se prima si poneva solo come riferimento gerarchico senza che vi fossero legami di alcun tipo con i co-attori locali, ora, questo non è più possibile. Bensì, alla Regione è richiesto di assumere quel ruolo necessario a facilitare la costituzione di una rete stabilmente dialogante nell’ottica di uno sviluppo collettivo. Si prefigura, per questa via, una sorta di regionalizzazione della occupazione -così come è avvenuto per le politiche sanitarie ed educative- caratterizzato da un sistema a due polarità dove coesistono due differenti livelli di politiche: quelle dello Stato orientate a definire linee di indirizzo generali, e quelle della regione che assumono un carattere spiccatamente gestionale.
In questa
prospettiva, tuttavia, forse maggiore attenzione va posta alla questione della responsabilità dei due attori e della missione compensativo-perequativa che lo Stato dovrebbe svolgere in vista di eventuali e sempre possibili fallimenti.
Da tutto ciò, emerge la necessità di una chiara politica formativa di indirizzo nazionale che definisca in maniera definitiva il ruolo, le responsabilità, le funzioni e le competenze dei singoli attori istituzionali. In assenza di un sistema di regole strutturato e di un metodo di valutazione condiviso, l’unica cosa che si può rilevare è una sorta di “giungla” delle qualifiche, della formazione e dell’implementazione al livello territoriale.
In conclusione può essere utile riflettere sulla lettura critica condotta da alcuni esponenti del mondo istituzionale e scientifico. Come si può leggere nella sintesi del Libro verde (1994, p. 10) sulla politica sociale europea, infatti: “il sistema trilaterale dello Stato, del sindacato e delle aziende, benché sostenuto dai governi e dalle parti sociali di quei paesi ove esso è correttamente praticato, è ritenuto da altri, trattandosi di un modello studiato precipuamente per un contesto industriale meno valido per il futuro, quando è probabile che la creazione di nuovi posti di lavoro si verifichi piuttosto nel settore dei servizi, soggetti ad un’evoluzione rapida e costante, e in nuovi settori (solo a titolo di esempio, quello delle energie alternative o delle tecnologie informatiche e telematiche dove si lavora prevalentemente per progetti). Si ricordi, inoltre, l’ampia diffusione di lavori che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere svolti in proprio attraverso le nuove modalità di lavoro flessibile introdotte prima dalla riforma Treu (L.196/97) e poi ampliate dalla recente riforma Biagi (L. 30/2003). Se si considera che tali riflessioni sono argomento di dibattito negli stessi paesi dove l’apprendistato ha fatto storia (si pensi alla Germania) è inquietante pensare che così tanti sforzi vadano verso un modello che per alcuni versi appare superato dato il progressivo indebolimento del settore industriale e, in particolar modo, della manifattura, al quale fa seguito un declino molto evidente dell’occupazione industriale, legato, in particolare, all’investimento in tecnologie avanzate. E viene da chiedersi se il fallimento e le criticità evidenziate dai monitoraggi nazionali non siano anche il frutto di tale controversa tendenza.

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