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mercoledì 23 maggio 2012

Psicologia Evolutiva

La psicologia dello sviluppo si propone l'affascinante compito di indagare la nascita e l'evolversi delle finzioni cognitive, emotive, relazionali dell'uomo. In questo capitolo andremo a ricostruire la nascita di questa branca della psicologia, considereremo le principali posizioni teoriche sullo sviluppo infantile, per poi soffermarci sull'apprendimento del linguaggio, lo sviluppo percettivo e motorio, quello cognitivo e quello sociale.

La nascita della psicologia evolutiva

La psicologia dello sviluppo è la branca della psicologia che studia l'uomo nel periodo del suo sviluppo; pur derivando dalla psicologia generale può vantare una sua autonomia, nonostante mantenga molti collegamenti con la filosofia, la pedagogia, l'etologia, la sociologia, la biologia.
I primi autori a interessarsi dell'età evolutiva furono prevalentemente filosofi, medici, educatori, religiosi, che nel '700 incominciarono a interessarsi alle caratteristiche intrinseche dei bambini e ai metodi migliori per allevarli. J. Locke, ad esempio, riteneva che la mente del bambino fosse paragonabile a una tabula rasa, e che lo sviluppo infantile dipendesse esclusivamente dall'esperienza e dall'educazione. Secondo Rousseau, invece, il bambino è dotato di un sentimento morale innato e partecipa attivamente al processo evolutivo interagendo con l'ambiente.
Nella seconda metà del Settecento si cominciò a considerare il bambino come oggetto di uno studio da compiersi soprattutto attraverso l'osservazione: nel 1774 J. H. Pestalozzi pubblicò una serie di appunti ricavati dall'osservazione diretta dello sviluppo di suo figlio, nel 1978, invece, Tiedemann scrisse una sorta di diario sul comportamento infantile. Ma l'apporto più significativo in questa direzione fu dato da C.R. Darwin che nel 1877 pubblicò sulla rivista “Mind” un articolo intitolato Schizzo biografico di un bambino, che traeva spunto dalle osservazioni delle prime fasi di sviluppo di suo figlio. Si trattava tuttavia, per tutti i casi riportati, di descrizioni specifiche e difficilmente generalizzabili; lo studio sistematico di gruppi sempre più numerosi di bambini ebbe inizio solo verso la fine dell'Ottocento grazie allo psicologo americano G.S. Hall, il quale adottò i questionari come nuova tecnica per indagare il contenuto della mente infantile. I suoi questionari potevano essere utilizzati da più persone e permettevano, attraverso una serie di domande specifiche, di ottenere informazioni sul comportamento, sugli atteggiamenti e sugli interessi dei bambini e degli adolescenti. Nel Novecento lo studio sui bambini è diventato più sistematico e scientifico e si è posto come obiettivo non solo la descrizione e la quantificazione dei dati, ma la spiegazione dei fenomeni descritti e la previsione di eventi futuri.

Le principali posizioni teoriche

Attualmente la psicologia dello sviluppo si interessa principalmente dei fattori che determinano lo sviluppo umano, dei processi che stanno alla base dei cambiamenti e dell'origine e della modificazione dei comportamenti.
Generalmente all'interno della psicologia dell'età evolutiva si distinguono tre impostazioni teoriche: la teoria comportamentista, o ambientalista, chiamata anche teoria dell'apprendimento o teoria del rispecchiamento meccanico, che comprende sia le impostazioni comportamentiste sia le impostazioni di riflessologi russi; la teoria genetica, o organistica, che comprende il pensiero di Piaget, della scuola di Ginevra e di Werner; la teoria psicoanalitica, che comprende, oltre al pensiero di Freud, anche quello di Jung, Adler, Klein e Erickson. Le principali differenze tra queste impostazioni riguardano soprattutto le ipotesi di base sulla natura del bambino e sui fini dello sviluppo, i tipi di cambiamento dello sviluppo, i fattori e le modalità dello sviluppa la presenza di stadi e le caratteristiche della maturazione.
La teoria comportamentista
Secondo la teoria comportamentista lo sviluppo è un processo continuo di apprendimento; la crescita e il cambiamento sono visti quindi da un punto di vista quantitativo: in questa prospettiva l'individuo è passivo e diventa ciò che l'ambiente lo fa diventare.
Il bambino nasce privo di contenuto psicologico e crescendo riflette in sé le conoscenze esterne, conformandosi gradatamente all'ambiente.
Questa teoria si occupa principalmente del comportamento manifesto e ritiene che le sue modificazioni dipendano fondamentalmente da due meccanismi: il condizionamento e l'imitazione dei modelli.
La teoria genetica
Per il comportamentismo il corso dello sviluppo è dunque continuo, le modificazioni e i progressi sono graduali e seguono un andamento regolare. La teoria genetica ritiene invece che la crescita e lo sviluppo siano discontinui e che il cambiamento sia soprattutto qualitativo. L'individuo è concepito come attivo e si sviluppa per mezzo delle sue azioni e dell'esperienza: secondo Piaget e Werner i bambini cercano di comprendere il mondo interagendo attivamente con gli oggetti e le persone e tendono, da una parte, a conservare la propria integrità (sia biologica, sia psicologica), dall'altra a svilupparsi verso uno stadio più maturo, realizzando le proprie potenzialità.
La teoria genetica si interessa soprattutto allo sviluppo del pensiero, del ragionamento e della capacità di risolvere i problemi.
Lo svizzero J.Piaget, studioso di zoologia e laureato in scienze, condusse le prime ricerche nel campo della psicologia collaborando con Binet alla costruzione dei test di intelligenza e giunse a proporre una nuova disciplina, denominata epistemologia genetica, per la quale fondò a Ginevra nel 1953 un apposito centro studi. Per Piaget la conoscenza fondamentalmente non è ritrascrizione, ma ricostruzione della realtà attraverso un processo di apprendimento, al fine di permettere all'individuo di adattarsi all'ambiente, ossia di equilibrare esigenze e attese del soggetto conoscente e caratteristiche e richieste dell'oggetto conosciuto. Tale adattamento si realizza attraverso l'accomodamento delle strutture mentali, cioè attraverso la loro trasformazione per meglio aderire alla realtà, e l'assimilazione di quest'ultima agli schemi mentali posseduti, in una dinamica di continuo superamento degli schemi mentali disponibili al fine di comprendere più adeguatamente gli aspetti della realtà che via via emergono con l'esperienza. In sostanza potremmo dire che il meccanismo che regola l'evoluzione del mondo biologico viene esteso da Piaget anche al mondo mentale: in entrambi i casi ci sarebbe un'interazione tra qualcosa che è dato in partenza, il genotipo per la biologia e la struttura mentale nell'altro caso, e qualcosa che viene incontrato, l'ambiente.
Piaget riteneva che lo sviluppo intellettuale di tutti i bambini sia caratterizzato da quattro stadi evolutivi: sensomotorio (si estende dalla nascita ai due anni, ed è caratterizzato dall'impiego delle esperienze sensoriali e motorie come tramite per l'esplorazione e la comprensione del mondo circostante), preoperativo (dai 2 ai 6 anni di età il bambino utilizza, per conoscere il mondo, anche il pensiero simbolico, che trova espressione nel linguaggio, ma tale pensiero è ancora essenzialmente egocentrico, in quanto il bambino considera tutto da un unico punto di vista, il suo), operativo concreto (comprende il periodo che va dai 7 agli 11 anni e porta con sé la possibilità di comprendere e utilizzare il pensiero logico) e operativo formale (inizia a partire dai 12 anni ed è caratterizzato dalla capacità di utilizzare una modalità di pensiero astratto e ipotetico). Nessuno di questi stadi può essere saltato in quanto ogni nuovo stadio si basa su ciò che il bambino ha fatto in quello precedente.
Il meccanismo venne applicato da Piaget anche all'evoluzione della cultura, dato che la storia del pensiero umano sembra aver percorso tappe simili a quelle della crescita intellettiva del bambino.
La teoria psicoanalitica
La teoria psicoanalitica si interessa principalmente della sfera affettiva e solo in seconda istanza di quella intellettuale e razionale. Per la psicoanalisi i bambini nella prima e nella seconda infanzia vengono determinati nel loro sviluppo da forze biologiche istintuali e da forze sociali; i cambiamenti sono sia quantitativi che qualitativi.
Anche per Freud esistono della fasi che segnano lo sviluppo del bambino: fase orale (riguarda il primo anno di vita del bambino, il maggior piacere proviene dalla mucosa orale e dall'alimentazione), fase anale (viene attraversata nel secondo-terzo anno di vita, il piacere è concentrato sulla mucosa anale e sul trattenere o espellere le feci), fase fallica (si presenta tra il terzo e il quinto anno di vita, contemporaneamente alla nascita del complesso di Edipo quando il piacere è concentrato sull'organo genitale e sull'onanismo) e fase genitale (fase che si completa nella pubertà e in cui si accede ai rapporti con l'altro sesso). Ogni fase è quindi contraddistinta da investimenti emotivi in una particolare zona del corpo, che in quel momento costituisce la fonte principale del piacere. Le fasi libidiche anteriori a quella genitale non sono eliminate nella persona adulta, ma di norma si organizzano sotto il primato della genialità. Esse contribuiscono alla formazione del carattere – si parla infatti di caratteri orali, anali, fallici – in funzione della prevalente risonanza dei tratti tipici della rispettiva fase.
L'uomo è visto quindi essenzialmente come un essere affettivo e irrazionale, che cresce cercando di controllare il conflitto tra le sue forze istintuali e la realtà. Il fine dello sviluppo è dunque il raggiungimento della maturità emotiva.
Le correnti di pensiero più recenti
Gli studi di Piaget sullo sviluppo del bambino sono considerati senz'altro una pietra miliare nella storia della psicologia dello sviluppo. Ricerche successive, condotte da M. Siegal, hanno però dimostrato come utilizzando metodologie di ricerca più sensibili al mondo dei bambini e più attente a rispettare il loro modo di ragionare, i bambini stessi dimostrassero di non essere soggetti a molti dei vincoli ipotizzati da Piaget, ma di possedere al contrario una competenza concettuale implicita. In particolare Siegal sottolinea l'importanza di fattori estrinseci (l'interesse delle domande, il rapporto instaurato con lo sperimentatore, la particolarità relazionale dei setting di ricerca), esperienziali (la novità delle prove impiegate, la posizione di autorità forte assunta dall'adulto che conduce le prove), linguistici (impiego di parole non familiari, o utilizzate in contesti particolari) e conversazionali (violazione delle massime di Grice).
J.S. Bruner, partendo dall'ipotesi che sia la cultura a formare la nostra impostazione mentale, fornendoci gli strumenti necessari a organizzare e comprendere il mondo, e che quindi la mente stessa non potrebbe esistere senza una cultura di riferimento, ritiene che l'apprendimento dei bambini vada concepito come culturalmente contestualizzato. I bambini si muoverebbero dunque all'interno di format (intesi come insieme di procedure comunicative che permettono al bambino e ai suoi partner scambi finalizzati e intenzionali) che andrebbero a formare contesti interattivi tali da permettere l'apprendimento. Studiando la comunicazione infantile Bruner arriva a definire i bambini come esseri socialmente competenti, in grado di stabilire precocemente relazioni, negoziazioni e elaborazioni cognitive. Queste ultime sono facilitate dall'impiego di frame (struttura che ordina, dà significato e permette la memorizzazione di un'esperienza) che aiutano il bambino a elaborare in modo significativo e comunicabile il suo rapporto con la realtà, e ad assimilare convenzioni. L'istruzione e l'educazione non dovranno quindi essere indirizzati a far acquisire competenze o conoscenze, ma a produrre una reale comprensione del mondo.
Per Olson invece è il linguaggio la chiave di accesso dei bambini al mondo che li circonda, e dare un senso all'interazione con gli altri. Le capacità socio-linguistiche dei bambini vengono sviluppate soprattutto dall'alfabetizzazione, vista come possibilità per riflettere sul linguaggio stesso. Siccome Olson vede un forte collegamento tra il pensiero e la parola, egli postula che questa riflessione sul linguaggio sfoci spontaneamente nell'acquisizione di nuove abilità riflessive che investiranno sia il linguaggio che il pensiero. La scrittura, in particolare, favorirà la nascita del pensiero critico, stimolando il confronto tra quanto viene detto, quanto viene inteso, e quanto viene capito, e portando poi a un confronto tra conoscenze e credenze.

L'apprendimento del linguaggio

È facile notare con quanta facilità i bambini apprendano il linguaggio, senza ricevere, se non saltuariamente, insegnamenti specifici e diretti da parte degli adulti. Questo è dovuto al fatto che essi nascono già con forti predisposizioni, a livello di percezione di suoni e stimoli e di capacità interattive, volte a favorire l'apprendimento del linguaggio. Ad esempio, i neonati sono particolarmente sensibili alla voce della madre, e, più in generale, tendono ad orientare testa e sguardi verso fonti da cui proviene la voce umana. A tre mesi sono già in grado di riconoscere la voce dei genitori e distinguere fonemi differenti. Infatti i bambini imparano prestissimo a distinguere i suoni che appartengono alla loro lingua e suoni “non linguistici”, apprendono che le cose hanno dei nomi, così come le persone, e, soprattutto, comprendono l'esistenza di un'intenzione comunicativa, apprendono cioè come il linguaggio sia utilizzato per comunicare qualcosa. Tali abilità sono alla base delle competenza comunicativo-linguistica dei bambini.
I bambini dunque dimostrano una notevole competenza innata nella percezione del linguaggio, ma alla nascita si trovano invece svantaggiati per quanto riguarda la possibilità di produrre suoni linguistici: infatti l'apparato vocale dei neonati non è strutturato in modo da poter emettere tali suoni. È solamente dopo i quattro mesi che il bambino inizia a produrre le cosiddette lallazioni, suoni molto semplici, dati dall'associazione consonante-vocale, che saranno poi seguite dal gergo espressivo, meno ripetitivo rispetto alle lallazioni e caratterizzato da intonazioni che rispecchiano quelle del linguaggio adulto. Si passa poi alle prime parole.
Naturalmente prima di poter imparare e quindi riprodurre una parola il bimbo deve essere in grado di riconoscerla e associarla correttamente al suo significato. Questa operazione è facilitata dall'atteggiamento verbale che spontaneamente gli adulti assumono quando parlano con dei bambini piccoli (si parla lentamente, usando frasi brevi e semplici, con molte domande, separando molto distintamente le parole tra loro), questa modalità linguistica, volta appunto a facilitare il compito dei bambini di riconoscere le singole parole all'interno della frase, comune a tutte le lingue e a tutte le culture, si chiama maternese.
Quando i bambini iniziano effettivamente a utilizzare le parole queste assumono il significato di un'intera frase, e vengono pertanto chiamate olofrasi. Con il termine olofrase si intende dunque un'espressione tipica del linguaggio infantile formata da una sola parola che vuole significare concetti (protodichiarativa) o richieste (protorichiestiva) che un adulto esprimerebbe con una frase più o meno complessa; di conseguenza a seconda dell'intonazione, delle circostanze e della gestualità che l'accompagna, una stessa parola può assumere significati diversi. Ad esempio, “ate” può significare “Voglio del latte”, oppure, indicando il contenitore del latte, “Guarda là c'è il latte”.
Naturalmente per poter utilizzare le olofrasi i piccoli devono essere prima in grado di comprendere il significato delle parole che impiegano. Come riescono i bambini ad associare a una parola il suo esatto significato? Essi si basano in primo luogo sulle indicazioni dei genitori, che indicano oggetti, animali, persone, situazioni connotandoli con il loro nome. Sulla base di queste indicazioni i bambini si formano delle categorie mentali, inizialmente abbastanza vaste che poi, sulla base dell'esperienza diventeranno sempre più definite (ad esempio, un bambino piccolo potrà utilizzare la parola “cane” o “bau” per riferirsi a ogni tipo di animale che cammina su quattro zampe, ed è peloso); in una seconda fase (dopo i tre anni) i bambini sono in grado di apprendere nuove parole anche per deduzione, o sulla base delle conoscenze linguistiche già apprese (per cui, ad esempio, tramite similitudini e confronti con parole già note).
I genitori, arricchendo e riformulando le frasi implicate dal bambino con le loro protodichiarazioni e protorichieste preparano anche la strada all'impiego di due o più parole associate. Questo impiego più avanzato del linguaggio avviene attorno alla metà del secondo anno di vita. I bambini iniziano allora ad impiegare quello che viene definito linguaggio telegrafico, utilizzando frasi composte da due o tre parole e collegate da una grammatica piuttosto semplificata ma che rispecchia comunque le regole generali della lingua naturale in cui il bambino è inserito. Ad esempio un bambino per chiedere del latte dirà “oio ate” [voglio latte] piuttosto che “ate oio”, utilizzando dunque l'ordine corretto: verbo, complemento oggetto proprio della lingua italiana. Questo passo è fondamentale perché i bambini possano passare all'apprendimento della sintassi, che viene appresa sperimentando le regole che vengono assimilate dall'ascolto della conversazione degli adulti: appena un bambino “scopre” una regola tende ad applicarla sempre, anche in caso di irregolarità (di cui può non essere ancora a conoscenza), l'uso e le correzioni da parte degli adulti lo porteranno a fare l'uso migliore di questa tendenza spontanea alla generalizzazione grammaticale. È anche importante notare come, osservando le correzioni che gli adulti apportano alle prime frasi dei bambini, si riscontra una maggiore tendenza a correggere le frasi che non sono vere piuttosto che quelle che sono vere ma non sono corrette grammaticalmente o sintatticamente: questo vuol dire che le regole di induzione che il bambino evidentemente applica nel processo di apprendimento del linguaggio si poggia non solamente su feedback esterni ma anche su meccanismi cognitivi interni, probabilmente innati.
L'ultima competenza che il bambino acquisisce è la competenza conversazionale: la capacità ciò di comprendere e utilizzare le regole condivise che regolano una conversazione (rispettare i turni di eloquio, utilizzare uno stile indiretto per le richieste, applicare elementari regole di cortesia, adattare il proprio linguaggio per renderlo pari alle caratteristiche del destinatario, sforzarsi di adottare il punto di vista dell'altro quando si dialoga). I bambini dimostrano di avere una minima competenza sociale nella conversazione, riuscendo ad esempio, a modificare il modo di rivolgersi a un adulto o a un loro coetaneo già verso i 5 anni.

Lo sviluppo motorio e percettivo

Come Piaget aveva ben evidenziato nei suoi studi le competenze motorie dei neonati comprendono per lo più riflessi, quali il ruotare la testa quando stimolati, l'afferrare, il respirare, la suzione. Ma già a partire dal secondo-terzo mese di vita, contemporaneamente allo sviluppo delle aree sensomotorie della corteccia cerebrale, le azioni diventano progressivamente sempre più volontarie. Ad esempio, i neonati sono in grado di sollevare e girare la testa ma non i piedi, ma già a 6 mesi un bambino in media è in grado di stare seduto da solo, a 9 mesi cammina con un appoggio e a 14 mesi è in grado di camminare da solo.
Nei primi anni di vita le capacità motorie che i bambini sono in grado di controllare sono inizialmente grossolane (spingere e manipolare grossi oggetti, rotolarsi, arrampicarsi, saltare...), ma l'apprendimento di capacità più raffinate quali utilizzare posate, allacciare bottoni, disegnare con matite e pennarelli avviene in un arco di tempo piuttosto breve. I tempi di acquisizione di tali abilità dipendono in parte da fattori genetici (bambini con gravi deficit avranno grandi difficoltà ad apprendere abilità motorie raffinate) ma sono anche influenzate fortemente dall'ambiente di sviluppo: un ambiente maggiormente ricco di stimoli sarà palestra ideale per lo sviluppo motorio dei bambini.
Lo sviluppo percettivo avviene sulla base di una sequenza fissa, stabilita a livello genetico. È infatti facile notare come i neonati dimostrino una tendenza a guardarsi attorno e una notevole abilità nel discriminare gli stimoli (preferendo i contorni, gli angoli e i margini). Inoltre i neonati dimostrano anche una spiccata tendenza a preferire il volto umano a qualsiasi altra configurazione, sia perché è ricco di contorni ben delineati e di contrasti cromatici, sia anche perché questa tendenza innata presenta una chiara valenza adattiva per la sopravvivenza della specie.
Intorno ai 2-3 mesi, con lo scomparire (come abbiamo visto a proposito dello sviluppo motorio) di alcuni dei riflessi innati, anche le abilità percettive subiscono dei cambiamenti: la visione comincia a migliorare (portando a una maggiore definizione e procione nel percepire gli stimoli luminosi), e le preferenze visive vanno in direzione di stimoli sempre più complessi.

Lo sviluppo emotivo

Il sistema emotivo è presente nei bambini fin dalla nascita, in quanto si basa su processi biologici precodificati e automatici che forniscono risposte indispensabili per la sopravvivenza dell'individuo. Essenzialmente le reazioni emotive riscontrabili alla nascita consistono in reazioni edoniche sulla bipolarità piacere-disgusto a livello gustativo, a reazioni di trasalimento in risposta a stimoli sonori o luminosi particolarmente forti o improvvisi, manifestazioni di sconforto in presenza di stimolazioni dolorose. Terminato, più o meno in corrispondenza del secondo mese di vita, questo primo periodo, l'espressione e la gestione dell'emotività assume gradatamente livelli più articolati e sofisticati, seguendo sempre una precisa sequenza evolutiva.
Tra i due mesi e l'anno di vita i bambini iniziano ad utilizzare le espressioni emotive a livello comunicativo e sociale (valutazione degli stimoli emotigeni e delle loro cause, nonché impiego delle espressioni emotive per manifestare bisogni). Questa gestione di primo livello è un antecedente diretto dell'abilità nel rapportarsi e far fronte agli stimoli in maniera che sia coerente con i propri scopi. È in questo periodo che fa la sua comparsa il sorriso sociale, attivato dai toni alti dell'eloquio (caratteristici tra l'altro emozioni primarie quali la gioia) e dalla vicinanza di volti umani.
Successivamente fanno la loro comparsa le espressioni facciali di altre emozioni quali la sorpresa (6/10 settimane), il binomio gioia-tristezza e la rabbia (3/4 mesi), la collera conseguente a un'esperienza frustrante (7 mesi), la paura e la circospezione davanti a stimoli avvertiti come ambigui, nuovi o pericolosi, e la paura davanti agli estranei compaiono prevedibilmente insieme alla locomozione(5/9 mesi).
L'ultima fase dello sviluppo emotivo del bambino (successivamente al primo anno di vita) riguarda la comparsa di emozioni sociali quali la colpa, la vergogna, la timidezza, il disprezzo. Tali emozioni vengono definite “sociali” in quanto al contrario delle emozioni primarie vengono apprese dal contesto culturale di riferimento e riguardano la valutazione che il bambino, conseguentemente alle esperienze derivate dalla socializzazione, impara a dare di sé e degli altri.
Nei mesi successivi compaiono emozioni più articolate, atte ad esprimere sentimenti complessi e denominate di conseguenza emozioni miste.
Sperimentando e imparando a confrontarsi con le espressioni emotive e gli stimoli emotigeni il bambino può essere considerato un soggetto emotivamente e affettivamente competente a tutti gli effetti.

Lo sviluppo sociale

La preferenza innata che abbiamo incontrato poco sopra parlando dello sviluppo percettivo che porta i neonati a preferire il volto umano rispecchia chiaramente una predisposizione dell'essere umano alla socialità. Nella stessa direzione porta un fenomeno riscontrabile intorno alle 8 settimane: il cosiddetto sorriso sociale (i bambini tendono a sorridere quando vedono un volto umano, o sentono una voce umana caratterizzata da toni alti, concentrando la loro attenzione su di esso, e incoraggiando quindi gli adulti a stargli vicino).
Le ricerche hanno tuttavia dimostrato come questa predisposizione innata non sia sufficiente in sé e per sé a garantire uno sviluppo armonico del bambino a livello sociale, se non è affiancata da un'adeguata stimolazione a livello ambientale: infatti è stato dimostrato come bambini istituzionalizzati, ai quali venivano fornite tutte le cure necessarie a livello fisico, ma che non venivano mai coccolati non riuscivano a crescere in maniera normale, e spesso erano soggetti a stati di depressione profonda che in alcuni casi portava anche alla morte. Harlow condusse esperimenti sull'importanza dell'attaccamento infantile per un armonico sviluppo sociale utilizzando come soggetti dei suoi esperimenti delle scimmiette. I suoi studi dimostrarono che la mancanza di una figura materna portava i piccoli di scimmia a comportamenti altamente disfunzionali, simili a quelli dei bambini autistici.
I bambini hanno dunque bisogno di contatti fisici per poter sviluppare nel percorso di crescita dei buoni legami emotivi e sociali. Ricerche hanno però dimostrato che a volte un buon rapporto con i coetanei può in certi casi permettere di recuperare, almeno in parte, carenze affettivo-sociali vissute dai bambini nella primissima infanzia.
Altre importanti ricerche sull'attaccamento infantile sono state svolte da J. Bowlby e Ainsworth, che sono giunti ad individuare diverse tipologie di attaccamento date essenzialmente dal comportamento della madre, o dell'adulto di riferimento, nei confronti del bambino. Studiando gli istinti che portano alla nascita di un attaccamento nei bambini, Bowlby e Ainsworth hanno individuato delle fasi: nel corso del primo anno di vita i bambini si configurano quali esseri sociali, intorno ai 6 mesi si presenta il fenomeno del sorriso sociale, di cui abbiamo parlato poco sopra, a partire dal sesto mese di vita i bambini sviluppano un vero e proprio attaccamento nei confronti della persona che li accudisce. Questo legame affettivo solitamente dura nel tempo ed è caratterizzato da un forte dolore in occasione di separazioni dall'oggetto del legame. Questo dolore, che assume connotazioni di angoscia nel primo anno di vita, comincia a diminuire sensibilmente attorno ai 2 anni.

In sintesi
La nascita della psicologia evolutiva–Locke
–Rousseau
–Pestalozzi
–Tiedemann
–Darwin
–Hall
Le principali posizioni teoricheLa teoria comportamentista
–l'individuo è passivo e diventa ciò che l'ambiente lo fa diventare
–il condizionamento e l'imitazione dei modelli

La teoria genetica
–Individuo attivo
–Sviluppo del pensiero
–Piaget: l'epistemologia genetica e i quattro stadi evolutivi
La teoria psicoanalitica
–Freud e le fasi libidiche
–L'uomo come un essere affettivo e irrazionale
Le nuove correnti di pensiero
–Siegal
–Bruner
–Olson
L'apprendimento del linguaggio–L'intenzione comunicativa
–Le lallazioni
–Il gergo espressivo
–Il maternese
–Le olofrasi
–La formazione di categorie mentali
–Il linguaggio telegrafico
–Apprendimento della sintassi
–Competenza comunicazionale
Lo sviluppo motorio e percettivo–I riflessi innati
–Lo sviluppo e l'affinamento delle capacità motorie
–La discriminazione degli stimoli
–La preferenza per il volto umano
Lo sviluppo emotivo–La base innata
–L'evoluzione della gestione ed espressione delle emozioni
–Sorriso sociale
–La comparsa delle emozioni primarie
–La comparsa della paura
–La comparsa delle emozioni sociali
–La comparsa delle emozioni miste
Lo sviluppo sociale–La predisposizione alla socialità
–Harlow e il rapporto tra attaccamento e sviluppo armonico
–Bowlby e Ainsworth e gli studi sull'attaccamento dei bambini

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