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mercoledì 23 maggio 2012

Psicologia Sociale

Il primo strumento che l'uomo ha a disposizione per rapportarsi agli altri è il linguaggio. Dalla riflessione sulla sua struttura e sul suo rapporto con il pensiero arriveremo poi ad esaminare l'interazione sociale in sé,gli atteggiamenti che caratterizzano i comportamenti umani, il concetto di stereotipo, e il rapporto della socialità con gli atteggiamenti aggressivi o altruistici degli individui.

Il linguaggio e la comunicazione

Nell'Ottocento Lewes, nel suo The study of psychology si riferisce con questi termini alla capacità umana di organizzare suoni per comunicare significati ai propri simili: “Come gli uccelli hanno le ali, l'essere umano possiede il linguaggio. Le ali forniscono agli uccelli quel loro atteggiamento caratteristico che è la locomozione aerea. Il linguaggio fa sì che l'intelligenza e le passioni degli esseri umani acquisiscano quel loro carattere peculiare di intelletto e sentimento”. Ed è senz'altro facile rendersi conto dell'importanza del linguaggio per la vita dell'uomo: senza di esso tante delle nostre attività quotidiane diventerebbero se non impossibili, certamente molto difficoltose. Sarebbe più complicato chiedere qualcosa, comunicare un bisogno, condividere ricordi, aspettative, opinioni.
Con il termine linguaggio nel suo senso più generale si intende un qualsiasi sistema di comunicazione codificato. Quando è usato in un'accezione tecnica (come nel caso di un linguaggio di programmazione, ad esempio), per linguaggio si intende un sistema di segnali o simboli che permette di trasmette un'informazione da un sistema a un altro; in questa accezione “codice” può essere utilizzato come sinonimo di linguaggio. In riferimento all'uomo per linguaggio si intendono i codici umani sia verbali che non verbali che consentono di formulare e trasmettere messaggi (per cui si potrà parlare di linguaggio naturale, ma anche di linguaggio pittorico, musicale, cinesico, cioè dei movimenti del corpo...). Con il termine linguaggio ci si riferisce però prevalentemente alla capacità propria dell'uomo di esprimersi verbalmente. In un'accezione strettamente connessa a questa il linguaggio indica anche lo specificarsi di questa attività umana in un determinato codice in rapporto a una determinata comunità umana, ossia il suo specificarsi nelle singole lingue naturali.
La lingua e la sua struttura
Dal punto di vista linguistico si considera il linguaggio dal suo interno, proponendosi di spiegare come esso funzioni, ossia di formulare ipotesi relative al fatto per cui sequenze di elementi fisici (fonici, grafici, gestuali) diventano portatrici di messaggi. Una lingua non mette in rapporto diretto il suono (l'espressione) e il significato (il contenuto), ma li correla attraverso una serie di livelli (fonetico, fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, semantico, pragmatico) che non vanno intesi come stati ordinati gerarchicamente ma piuttosto come luoghi organizzativi, al cui interno vengono costituiti oggetti linguistici di vario genere (a livello fonetico si costruiscono i fonemi, a livello morfologico i morfemi, a livello lessicale i lessemi e così via). Queste regole permettono ad ogni lingua umana di essere produttiva, e cioè di poter produrre, a livello di principio, un numero infinito di nuove frasi, atte ad esprimere qualsiasi concetto o pensiero.
Alla base di ogni lingua ci sono i mattoni di base che servono a formare le parole: i fonemi. Un fonema è il segmento minimo di suono non ulteriormente scomponibile in tratti che non siano simultanei, e quindi viene a coincidere, dal punto di vista fonologico, con quell'unità minima che permette di distinguere significati diversi (ad esempio cambiando la lettera iniziale della parola sasso ottengo passo: s e p sono dunque due fonemi in quanto mi permettono di distinguere le due parole). Ogni lingua utilizza un numero fisso di fonemi (che varia da un massimo di 100 a un minimo di 13; la lingua inglese utilizza circa 45 fonemi), che poi possono essere combinati tra di loro sulla base di specifiche regole fonemiche. Imparare una lingua vuol dire impararne non solo le regole grammaticali e il significato delle parole, ma anche i suoni che le sono propri e che ci permettono di cogliere, ad esempio, l'inizio e la fine delle parole, e la differenza tra più parole. Può capitare infatti che fonemi che in una lingua sono distinti (come r e l in italiano, ad esempio, luna e runa) in un'altra non lo siano (ad esempio, il giapponese non distingue il fonema r dal fonema l, per cui i parlanti giapponesi non li odono come differenti).
L'unione di più fonemi che vanno a costituire l'unità minima di un enunciato dotata di significato prende invece il nome di morfema. Un morfema può coincidere con una parola, ma le parole possono anche essere composte da più morfemi. Ad esempio, parole come mai in italiano o only in inglese corrispondono a dei morfemi (morfemi liberi). Invece una parola come cantavo è composta dal morfema cant e dal morfema avo (che specifica e caratterizza il primo morfema che è quello portatore del significato). Da quest'ultimo esempio risulterà chiaro che tutti i suffissi e i prefissi che possono aggiungersi a parole, verbi o aggettivi costituiscono morfemi che per la loro particolare natura (il fatto di non poter avere vita propria ma di dover necessariamente essere associati ad un'altra parola) prendono il nome di morfemi legati.
I morfemi compongono dunque le parole che a loro volta possono combinarsi tra di loro sulla base di regole sintattiche, che sono specifiche per ogni lingua naturale, e che, in genere regolano i rapporti tra i gruppi nominali (nomi, aggettivi, articoli) e i verbi che insieme vanno a comporre gli enunciati.
La comprensione e la produzione del linguaggio
William James (che abbiamo già incontrato parlando di emozioni) una volta disse: “La persona che conosce una frase di dodici parole sa molte più cose di dodici persone che conoscono solo una delle parole che compongono quella frase”. Questa sua dichiarazione si riferiva ovviamente al fatto che la disposizione delle parole nella frase va ad influire sul significato della frase stessa. La disciplina che si occupa di studiare il significato delle parole e la loro combinazione per comporre il significato di un enunciato è la semantica.
Conoscere il significato di una parola non vuol dire semplicemente conoscere la cosa (o le cose) a cui si riferisce la parola stessa, come vorrebbe il senso comune. Questa definizione infatti non sarebbe sufficientemente esplicativa su come le persone possano conoscere il significato di termini astratti come “infinito”, “maggiore” oppure di termini come “lentamente”, “prima”, che non fanno riferimento a situazioni concrete. Quando pensiamo al significato di una parola, la parola stessa porta con sé una serie di conoscenze relative da una parte alle proprietà percettive che si riferiscono ad esempi del concetto cui è collegata la parola, e dall'altra alle sue relazioni con altri concetti similari (per esempio pensando alla parola “usignolo” nella mia mente sarà presente la consapevolezza che l'usignolo è un uccello, e probabilmente differenze e confronti con altri tipi di uccelli), e con le caratteristiche salienti di quei concetti (nel caso dell'usignolo che è famoso per la sua voce, che è spesso utilizzato dai poeti nelle loro composizioni eccetera). Questo insieme di informazioni, che sono quelle che possediamo per la maggior parte delle parole, vanno a formare le cosiddette definizioni potenziali (che si contrappongono alle definizioni rigorose, quale, ad esempio quella che un ornitologo potrebbe dare dell'usignolo), mentre gli studiosi di semantica (a partire dal filosofo Puttnam che fu il primo ad utilizzare il termine in questo contesto) utilizzano il termine stereotipi per riferirsi ai concetti cui ci riferiamo automaticamente quando pensiamo o utilizziamo una determinata parola.
Mentre una parola si riferisce a un significato che può essere noto o meno ma non possiede valore di verità, gli enunciati lo possiedono (un enunciato, cioè, a differenza di una parola, può essere vero o falso), in quanto possono stabilire relazioni e riferimenti tra parole.
La possibilità di stabilire riferimenti è molto utile perché permette di indicare qualcosa con precisione (invece di chiedere: “Portami il libro rosso” possiamo ad esempio dire: “Portami il libro rosso sul tavolo, quello che ti ha prestato tua cugina quando tu le hai confessato di non aver mai letto altro che fumetti”). Inoltre consente di fare riferimenti a cose non esistenti (“Se vai in libreria, potresti cercarmi il libro La psicologia a fumetti che sostituisce il libro di testo tradizionale?”) o ipotizzare idee creative (“Chissà se il libro rosso di tua cugina è delle dimensioni giuste per alzare il monitor del computer in modo da non farmi venire il torcicollo...?”). Per fare però un enunciato che possa essere giudicata vera o falsa da un ascoltatore occorre aggiungere ai riferimenti un'affermazione, ad esempio se dico: “La prof di psicologia ha sostituito il manuale di psicologia con il testo La psicologa a fumetti”, la sostituzione può essere stata effettivamente attuata dall'insegnante oppure no, mentre nell'esempio precedente, il chiedere di cercare il testo in questione in libreria non poteva essere giudicata “vera” o “falsa”, tutt'al più fuorviante nel caso il testo in questione fosse risultato inesistente. Le affermazioni possono essere simmetriche (“Il libro rosso è l'unico libro che ti verrà chiesto all'esame”: il significato della frase resta identico anche se cambio l'ordine degli elementi: “L'unico libro che ti verrà chiesto all'esame è il libro rosso”) o asimmetriche (sentire “L'insegnante di psicologia ha buttato un alunno fuori dall'aula” è ben diverso da “Un alunno ha buttato l'insegnante di psicologia fuori dall'aula”).
Quando ci confrontiamo con la comprensione di un enunciato non possiamo quindi fare riferimento solo ai suoni o alle parole che lo compongono, ma una volta individuate le strutture di base di un enunciato, i modelli sintattici di superficie, gli ascoltatori fanno automaticamente riferimento anche ai contenuti proposizionali soggiacenti, sulla base dei quali (come risulta dalle prove di rievocazioni condotte sulla memoria verbale) le informazioni vengono immagazzinate nella memoria.
Inoltre, perché una comunicazione sia efficace, e i destinatari possano interpretare correttamente il senso degli enunciati, occorre che i parlanti rispettino le cosiddette massime di Grice, basate sul principio di cooperazione tra partecipanti. Le massime conversazionali messe a punto da Grice sono ispirate alle categorie di quantità (fornire informazioni sufficienti per soddisfare la richiesta implicita o esplicita dei destinatari, ma senza fornire allo stesso tempo troppe informazioni inutili), qualità (il parlante deve sforzarsi di fornire informazioni che siano veritiere), relazione (fornire solo informazioni che siano pertinenti con quanto si sta dicendo) e modo (non essere oscuri o ambigui, procedere in maniera ordinata). Grice stesso rilevò che le trasgressioni alle massime riscontrabili negli scambi linguistici sono numerose e rivelatrici di una differenza importante: quella tra significato espresso e significato inteso, tra quanto viene detto e quanto viene fatto intendere, tra ciò che vogliono dire le parole e ciò che vogliono dire i parlanti. Prescindendo da casi in cui chi parla vuole ingannare o non è in grado di parlare chiaramente, Grice si concentrò sui casi in cui il parlante desidera suggerire all'ascoltatore un significato diverso da quello espresso, o aggiuntivo. Quando nell'enunciato è implicito un significato aggiunto (da inferire) questo significato è chiamato implicatura conversazionale. Ad esempio se Amilcare dice: “Non trovo più il testo di psicologia” e Matilde risponde: “Ho visto Amedeo mettere nel sacco nero tutta la carta da mandare al macero”, occorrerà che Amilcare riconosca che Matilde ha voluto suggerire che tanto è l'amore per quel testo che probabilmente è stato inserito tra la carta da mandare al macero. Se invece, riferendosi a un amico che ha passato a pieni voti l'esame di psicologia perché l'insegnante gli ha chiesto l'unico argomento che casualmente aveva studiato, Amilcare dicesse: “Che secchione!”, si tratterebbe di ironia, in quanto burlandosi della massima della qualità, la frase di Amilcare ha il chiaro scopo di comunicare, o meglio implicare, l'opposto di ciò che viene detto.
Linguaggio e pensiero
Abbiamo visto più volte quanto sia importante il ruolo giocato dalla cultura sul modo di pensare e di agire delle persone. Ci si potrebbe anche chiedersi quale sia il ruolo della cultura sul linguaggio, intendendo cultura come il tipo di linguaggio parlato dalle persone. È possibile che parlare una lingua particolare caratterizzata da specifiche strutture semantiche e grammaticali porti con sé modalità proprie di pensiero? O, ancora, è possibile che il nostro modo di parlare influisca anche sul nostro modo di percepire e rapportarci con il mondo che ci circonda? Questa è proprio l'ipotesi sostenuta da Whorf e Sapire, nella loro famosa ipotesi della relatività linguistica. Per loro molti dei processi cognitivi sono relativi, in quanto in parte determinati dal linguaggio dei diversi individui. Una persona che parla inglese ragionerà quindi diversamente da un'altra che ha come madre lingua il cinese. Whorf e i suoi collaboratori hanno fondato la loro ipotesi sull'evidenza fornita da esperimenti che mostravano come soggetti posti davanti a uno stimolo ambiguo, attuassero una ritrascrizione visiva a seconda del nome che veniva assegnato con lo scopo di rendere non ambiguo, lo stimolo. Ad esempio, soggetti a cui veniva presentato uno stimolo del tipo: etichettato come “occhiali” lo avrebbero successivamente disegnato così , per avvicinarlo maggiormente all'idea che avevano associato allo stimolo, mentre coloro ai quali era stato presentato con la dicitura “manubrio” tendevano a ridisegnarlo così: .
Ma verifiche successive, condotte, ad esempio, su popolazioni che differivano nella modalità di nominare i colori (confrontando lingue ricche di distinzioni come l'italiano o l'inglese con lingue che non possedevano se non due categorie per definire i diversi colori: “chiari” contrapposti a “scuri”) hanno dimostrato che nonostante queste forti differenze la percezione dei colori non differisce, come invece avrebbe voluto la teoria di Whorf. Sulla base di queste e altre prove (la lingua inglese, ad esempio, non prevede una modalità per esprimere direttamente il tempo futuro, senza ricorrere a degli ausiliari, ma non per questo qualcuno potrebbe ipotizzare che gli inglesi hanno difficoltà a concepire il futuro in sé!) l'ipotesi della relatività linguistica è stata fortemente criticata. Tuttavia se per alcuni aspetti può vantare una validità: ad esempio è indiscutibile che lingue che prevedono o non prevedono l'impiego della forma di cortesia (la differenza tra “dare del lei” e “dare del tu” che l'italiano condivide, ad esempio, con il tedesco, ma che è sconosciuta all'inglese) comportino un notevole cambiamento nella gestione delle conversazioni.

L'interazione sociale

Più volte ci siamo interrogati nei capitoli precedenti su quale fosse il compito dello psicologo. Ci siamo risposti che egli si propone di studiare, sotto diversi aspetti, la mente degli individui. Ma, come già sottolineato, gli uomini si distinguono anche per la peculiarità di “vivere socialmente”, di appartenere a dei gruppi. Gli individui scelgono e valutano il loro stare insieme agli altri sulla base dei vantaggi che questo comporta (in termini di gratificazione, piacevolezza, aiuto reciproco...) e dei costi richiesti (disponibilità e mettersi o essere messi in discussione, ricevere da chi sta vicino messaggi a volte confusi, essere feriti o ferire...). Le dinamiche che regolano il nostro stare in mezzo agli altri sono numerose e complesse, tanto che spesso noi stessi fatichiamo a capirne tutte le sfumature e ad orientarci in maniera “competente”. Gli psicologi sociali si propongono come scopo proprio quellodi studiare i legami sociali degli individui in tutta la loro complessità .
L'uomo come essere sociale
Una prima domanda che pare lecito porsi riguarda il motivo di questa tendenza dell'uomo alla socialità.
Parlando delle motivazioni psicologiche e del bisogno di affiliazione abbiamo sottolineato come atteggiamenti di attaccamento siano innati: questo perché fin dal momento della nascita l'uomo dipende da chi gli sta vicino per la sua sopravvivenza. È dunque logico ipotizzare che almeno alcune delle motivazioni sociali siano innate e motivate alla sopravvivenza della specie. Ma questa predisposizione non può che costituire un semplice punto di partenza: i legami sociali con cui gli individui si confrontano e interagiscono nel corso della loro vita adulta sono necessariamente più complessi, essendo arricchiti da fattori esperienziali e culturali.
Sarà quindi interessante riconsiderare i legami di attaccamento sviluppatisi sulla base del bisogno di affiliazione, precedentemente esaminati dal punto di vista del legame madre-bambino, nell'ottica dell'individuo adulto. Da questa prospettiva l'affiliazione viene a significare attaccamento reciproco, inteso come il bisogno, imprescindibile per ognuno di noi, di una qualche forma di contatto umano.
Le persone ricercano, come dicevamo sopra, la vicinanza degli altri per i motivi più svariati: come forma di stimolazione (per vincere la noia, per divertirsi, per non avvertire la solitudine...), come appoggio quando hanno bisogno di conferme o di approvazione, e via di seguito. Tali bisogni sono riconosciuti in maniera abbastanza intuitiva e pochi ricercatori hanno avvertito l'esigenza di pianificare ricerche per approfondirne le cause, che risultano implicite nel bisogno stesso.
Interessanti restano invece le ricerche di Schachter, che ha voluto indagare l'esistenza di un legame forte tra bisogno di affiliazione e ansia. Egli aveva infatti ipotizzato che come l'assenza di legami di tipo affiliativi produce ansia (si pensi ad esempio, ai detenuti in cella di isolamento), così, al contrario, in situazioni ansiogene la possibilità di avere vicino altre persone dovrebbe favorire un abbassamento del livello di ansia. In effetti capita spesso di notare come più persone in attesa di un avvenimento per loro stressante (in coda dal medico, aspettando di essere interrogati ad un esame universitario...) tendano a legare facilmente tra loro, cosa che succede molto più raramente in situazioni “neutre” (ad esempio, in coda al supermercato). Le ricerche di Schachter produssero effettivamente risultati nella direzione prevista dall'autore: egli con i suoi esperimenti arrivò ad evidenziare come situazioni d'ansia favoriscono il desiderio di affiliazione con persone che si trovano a vivere una situazione analoga. Ma l'ansia, come hanno evidenziato gli studi di Schachter, per creare affiliazione deve essere sufficientemente forte da far vedere gli altri come effettive fonti di aiuto o supporto: una lieve ansia viene accresciuta piuttosto che mitigata dalla vicinanza di altre persone. Gli altri vengono anche preferenzialmente evitati quando la fonte d'ansia coincide con la paura di essere in qualche modo ridicolizzati, perché in questo caso la presenza di terze persone produrrebbe ulteriore stress. Lo stare con gli altri in situazioni vissute come stressanti o ansiogene, ipotizza Schachter, è percepito come positivo sia perché gli altri, mostrandosi calmi e sicuri davanti alla situazione che preoccupa i soggetti possono avere un effetto calmante, sia anche perché confrontare i propri pensieri con altri che si pensa possano condividerli può essere un forte aiuto per chiarire anche a sé stessi l'oggetto dei propri timori.
L'attrazione interpersonale
A parte casi particolari come quelli su cui ci siamo appena soffermati, tendenzialmente ognuno di noi ricerca la compagnia delle persone con cui si trova meglio. Sulla base di quali criteri avvengono queste scelte? Da una parte abbiamo senz'altro la tendenza a scegliere persone che in un modo o nell'altro ci forniscono delle ricompense (sotto forma di aiuto, di comprensione, compagnia...), ma è indubitabile che esistano altre fonti di attrazione più “generali” e condivise, che stanno in un certo senso alla base delle altre più specifiche e personali, quali la vicinanza (noi abbiamo maggiori possibilità di conoscere e frequentare persone che vivono o lavorano vicino a noi, inoltre esse sono anche quelle che maggiormente si trovano ad esserci vicine quando ne abbiamo bisogno, per fornirci appoggio o anche solo per una chiacchierata amichevole. La familiarità, oltre ad essere una buona base per la nascita di un'attrazione fornisce anche maggiori occasioni per verificare i presupposti per l'instaurarsi di rapporti affettivi), la somiglianza (a livello intuitivo si è spesso tentati di credere al vecchio adagio secondo cui “gli opposti si attraggono”. In realtà è stato dimostrato che le persone tendono a preferire chi si trova nella loro stessa posizione demografica – dal punto di vista religioso, economico, sociale – , chi è simile a loro per personalità, e condivide i loro stessi atteggiamenti), l'attrazione fisica (la gradevolezza fisica risulta predittiva, almeno a livello superficiale, rispetto a un più alto fattore di gradevolezza percepito da coloro che la notano, soprattutto perché tanto peso è dato all'aspetto fisico nella nostra società. Il fatto poi che gli individui reagiscano prevalentemente in maniera positiva davanti alle persone dotate di un aspetto gradevole porterà queste ultime a sviluppare anche un carattere più socievole e una maggiore sicurezza, caratteristiche che a loro volta facilitano la nascita di rapporti interpersonali), e la reciprocità (siccome l'approvazione da parte degli appartenenti al nostro gruppo sociale di riferimento è una delle maggiori gratificazioni che possiamo ricevere dagli altri, si riscontra la forte tendenza a contraccambiare l'affetto che gli altri provano per noi, a meno che questo non sia in qualche modo percepito come falso, o se proviene da persone nei confronti della cui capacità discriminativa non proviamo particolare stima).
Uno dei legami più forti che può unirci agli altri è un vincolo d'amore. L'amore può avere diversi oggetti: si può amare la propria patria, i propri genitori, il proprio compagno. Ma è l'amore romantico quello a cui più spesso si fa riferimento quando si parla di amore. Gli psicologi sociali che si sono occupati di questo argomento definiscono l'amore come un sentimento più profondo e specifico rispetto al “piacersi”, che implica la tendenza a prendersi cura dell'altro, ed è nella maggioranza dei casi accompagnato da una componente di eccitazione sessuale. Le relazioni d'amore sono mediamente più intense e gratificanti dei rapporti amicali, ma anche il loro terminare è sentito e vissuto come molto più stressante; inoltre tali relazioni mediamente non procedono lungo una linea retta che porta dalla conoscenza all'innamoramento, all'amore, al matrimonio. Mediamente le relazioni romantiche sono caratterizzate da periodi conflittuali, allontanamento, riconciliazioni, mediazioni, confronti. È interessante notare come non solo le persone tendono ad avere più relazioni romantiche durante il corso della loro vita, ma che molti dei divorziati si risposino o trovino nuovi compagni dopo pochi anni: il che vuol dire che le persone continuano a credere nell'amore, anche quando ne hanno sperimentato personalmente il fallimento.

Atteggiamenti

Dovendo vivere inseriti in un ambiente sociale complesso, è naturale pensare che noi attuiamo una sorta di classificazione di ciò che ci circonda in modo da poter meglio interagire con il nostro mondo. Le persone assorbono da una parte alcune delle credenze e degli atteggiamenti di chi sta loro vicino, ma molti degli atteggiamenti sono anche mutuati dalla cultura di appartenenza (ad esempio molti di quelli collegati alla religione o alla politica).
Un atteggiamento relativo a un determinato argomento nasce dunque sulle nostre convinzioni riguardanti quell'argomento (ad esempio, il mio atteggiamento sulla musica classica si baserà sulle mie idee riguardo la sua piacevolezza, ascoltabilità...) che, per produrre un qualche effetto sul comportamento, devono necessariamente essere associate o portare a delle conseguenze (se ritengo che la musica classica sia monotona probabilmente mi sentirò irritato o annoiato all'idea di andare ad ascoltare un concerto – conseguenza negativa; mentre se sono appassionato di questo genere di musica aspetterò con gioiosa anticipazione l'occasione di sentire un'esecuzione dal vivo – conseguenza positiva).
È dunque possibile dedurre che generalmente gli atteggiamenti di una persona su un argomento specifico si traducano in influenze individuali specifiche che si riflettono sui nostri comportamenti. Gli psicologi sociali iniziarono ad interessarsi di atteggiamenti confidando che, dato questo stretto rapporto atteggiamento-comportamento, sarebbero stati predittivi dei comportamenti degli individui, ma le ricerche hanno anche messo in evidenza come il rapporto tra le nostre opinioni, i nostri atteggiamenti e il modo di agire che attuiamo non sia sempre diretto e univoco. Infatti pressioni causate da situazioni specifiche possono portarci a modificare il nostro comportamento tanto da renderlo non compatibile con i nostri atteggiamenti e le nostre opinioni. Ad esempio, per quanto l'atteggiamento di Amilcare nei confronti della musica classica possa essere entusiasta, probabilmente non metterà mai un CD di Bach come sottofondo la sera che ha ospite a casa sua Matilde, su cui vuole fare una buona impressione e che notoriamente giudica la musica classica come estremamente noiosa. D'altra parte a Matilde può capitare di ascoltare musica classica (senza lamentarsi) quando si trova in compagnia di alcuni suoi amici che studiano musica antica al conservatorio.
Sulla base di queste considerazioni gli studiosi hanno ipotizzato che conoscenze sugli atteggiamenti delle persone ci permettono di trarre conclusioni valide sui comportamenti medi degli individui (potremmo quindi ragionevolmente aspettarci che Amilcare in una settimana o in un mese ascolti più musica classica di Matilde), mentre per prevedere comportamenti più specifici bisognerà indagare atteggiamenti specifici: ad esempio, per sapere che musica Amilcare farà ascoltare a Matilde, dovremmo indagare i suoi atteggiamenti e le sue credenze relativamente a che musica far ascoltare alle persone che vuole compiacere e non relativamente alla musica in sé.
La formazione degli atteggiamenti
Una vola esaminato il rapporto che può esserci tra un atteggiamento e il comportamento delle persone in situazioni diverse, ci si potrebbe chiedere come esse arrivino a formare i loro atteggiamenti nei confronti di specifici argomenti. La risposta più immediata è che le persone costruiscano degli atteggiamenti sulla base delle loro esperienze: se Amilcare non ha mai letto libri seri, ma solo fumetti o romanzi polizieschi, e sua cugina Ermengarda gli presta un trattato sulla vita dei coleotteri africani, probabilmente l'atteggiamento di Amilcare nei confronti della lettura di un certo livello non sarà mai particolarmente entusiasta. Ma non sempre è così: ad esempio, l'atteggiamento razzista di alcune persone nei confronti di particolari gruppi o etnie non è basato su alcuna esperienza e conoscenza diretta.
Proviamo dunque a esaminare velocemente le cause che possono portare alla formazione di particolari atteggiamenti.
Abbiamo citato poc'anzi l'esperienza, che non può comunque essere tralasciata, o sottovalutata: atteggiamenti che poggiano su un'esperienza diretta avranno senz'altro più peso che quelli derivanti da esperienze di terzi che ci vengono comunicate. A livello sociale, i primi ad avere un'influenza sugli atteggiamenti dei bambini sono i loro genitori, che, più o meno consapevolmente, trasmettono i loro propri ai figli, rappresentando, quanto meno nei primi anni di vita dei bambini, la loro principale fonte di conoscenza. Più avanti i bambini impareranno e avranno l'occasione di confrontare le proprie esperienze anche con un gruppo di coetanei, la cui influenza diventerà progressivamente più forte, per raggiungere il suo massimo nel periodo adolescenziale. Non è da sottovalutare neanche l'importanza degli strumenti di comunicazione di massa (stampa, radio, televisione, internet...) che, per quanto non abbiano un'influenza assoluta sulle credenze degli ascoltatori, giocano tuttavia un ruolo importante nella formazione e nel consolidamento di determinati atteggiamenti (basti pensare allo spazio dedicato, ad esempio, nei telegiornali, ad alcuni fatti piuttosto che ad altri, per capire quanto siano trasmessi, insieme alle notizie, determinati atteggiamenti nei confronti delle stesse).
È possibile modificare gli atteggiamenti?
Quanto abbiamo detto porta a credere che generalmente sia logico aspettarci una coerenza tra gli atteggiamenti, le credenze delle persone e i loro comportamenti. Ma cosa succede quando si avverte una forte dissonanza tra un atteggiamento e un comportamento? Ad esempio Amilcare potrebbe non sopportare la musica dance, ma iniziando una relazione con Matilde (che al contrario non sopporta la musica classica che piace a lui) e trovandosi ad ascoltare spesso questo tipo di musica si troverebbe davanti a un conflitto. Secondo gli psicologi sociali, in casi come questi le persone tendono a ridurre il disequilibrio che avvertono o cercando di minimizzarlo (la coppia potrebbe provare a non ascoltare musica quando è insieme), oppure cambiando l'atteggiamento (Amilcare potrebbe decidere che conoscendola meglio la musica dance non è poi così male, oppure Matilde potrebbe riconsiderare la sua posizione relativamente alla musica classica). Questo avviene, secondo la teoria dell'equilibrio, perché le persone trovano più piacevoli le situazioni che avvertono come equilibrate (dove c'è quindi armonia tra gli atteggiamenti e i comportamenti che ad essi sono correlati). Altre volte la disarmonia è percepita a livello cognitivo, quando le persone sono combattute tra due atteggiamenti non coerenti tra di loro. Ad esempio, Matilde può sapere che mangiare troppo cioccolato nuocerà alla sua dieta, ma continua comunque a mangiare cioccolato perché è triste ed è convinta che il cioccolato migliorerà il suo morale. Per ridurre la dissonanza data da questa contrapposizione probabilmente Matilde arriverà a modificare uno dei due atteggiamenti (smettere di mangiare il cioccolato o convincersi che tutto sommato, specie se in quantità non elevate, non potrà causare gravi danni alla sua linea), coerentemente con quella che gli studiosi hanno battezzato teoria della dissonanza.
In genere però gli atteggiamenti delle persone si modificano poco alla volta sulla base di nuove esperienze e di maggiori conoscenze.
Gli psicologi sociali sono molto interessati anche alla possibilità di modificare intenzionalmente gli atteggiamenti degli altri (dei propri figli, degli studenti, degli amici, degli elettori...). Inizialmente si pensava che gli individui modificano gli atteggiamenti sulla base dei rinforzi che ricevono, assumendo quindi gli atteggiamenti più rinforzati a livello sociale o personale. Successivamente è stata avanzata la teoria delle risposte cognitive, secondo la quale le persone modificano i loro atteggiamenti sulla base delle nuove informazioni che ricevono. La comunicazione di nuove informazioni di per sé non è sufficiente a modificare gli atteggiamenti di una persona ma la porterà probabilmente a rivedere le sue posizioni: riuscendo a non far nascere immediatamente opposizione nei confronti delle nuove informazioni (portando dunque gli ascoltatori a contraddirle, e rinsaldandoli contemporaneamente nei loro atteggiamenti) ma suggerendo alle persone nuove ipotesi, sarà prossibile riuscire a modificare anche i loro atteggiamenti.

Stereotipi e pregiudizi

Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi.
Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.
Gli stereotipi
Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria.
D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare, sulla base di quanto detto poco sopra sulla somiglianza tra stereotipi e modelli mentali, che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni (vivendolo dunque non come “tutti gli anziani hanno i capelli bianchi” ma “molti anziani hanno i capelli bianchi”), può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali.
Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini nell'impiegare il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che causa l'arresto del sistema operativo da parte di un'amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.
I pregiudizi
Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.
Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente, e ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – tendiamo a formare i nostri pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso dal nostro, di cui necessariamente avremo una conoscenza meno approfondita, e di cui saremo quindi meno in grado di vedere differenziazioni interne. Le ricerche sociologiche hanno anche posto in evidenza come le persone inserite, anche arbitrariamente, in un gruppo tendono ad accentuare le differenze che portano ad una distinzione del gruppo di appartenenza rispetto agli altri, e a cercare quindi di favorire il proprio gruppo.
Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta, come evidenziato parlando degli atteggiamenti, a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi. Ad esempio, se per un qualche motivo Amilcare si è convinto che i toscani sono persone estremamente litigiose, incontrando il cugino livornese di Matilde assumerà probabilmente un atteggiamento più provocatorio, intendendo difendersi dagli “inevitabili” attacchi che si aspetta. Ma questo suo atteggiamento sarà visto come ostile e ingiustificato dal cugino toscano che a sua volta si metterà sulla difensiva nei confronti di Amilcare, che lo percepirà come litigioso, rafforzando di conseguenza il suo pregiudizio.
È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

Aggressività e altruismo

Aggressività e altruismo sono due poli di comportamento finalizzati alla sopravvivenza dell'individuo e della specie.
L'aggressività e le sue cause
Aggressività è un termine con cui in psicologia e nelle discipline antropologiche e sociologiche vengono designate molteplici forme di comportamento di attacco (dalla violenza distruttiva al sano spirito di competizione, dalle azioni effettive alle pure fantasie; perfino la maldicenza può essere considerata un comportamento aggressivo se si propone come finalità quella di ferire la persona verso cui è diretta), così come sono diversi gli oggetti a cui l'aggressività può essere rivolta (anche la propria persona). I comportamenti aggressivi possono essere accompagnati da un vissuto emotivo intenso e negativo: in questo caso si parla di aggressività ostile; se invece un comportamento che esprime aggressività avviene in assenza di stati emotivi specifici si parla di aggressività strumentale.
Quanto alle cause, vi sono teorie che considerano l'aggressività innata, e altre che la considerano derivata da condizioni ambientali; quanto alle funzioni, secondo alcuni indirizzi è utile alla crescita del singolo e della società, secondo altri è in prevalenza dannosa. Il comportamentismo sottolinea il carattere reattivo dell'aggressività rispetto a situazioni ambientali critiche, dunque il suo significato adattivo. In particolare Dollard e altri, in Frustrazione e aggressività (1939), ne evidenziano la dipendenza funzionale dalla frustrazione (vedi sotto “La teoria della frustrazione-aggressività”). L'idea che il condizionamento spieghi ogni comportamento, porta infine Skinner a negare ogni radice innata dell'aggressività e a ritenere che un giusto ambiente educativo eviterà nell'adulto ogni forma di comportamento aggressivo. Per l'etologia l'aggressività è istinto utile a conquistare il territorio, il rango nella gerarchia, l'accesso alla femmina. K. Lorenz, che distingue l'aggressività interspecifica (predatore-preda) dall'aggressività intraspecifica (tra i membri della stessa specie), la reputa sempre adattiva: con i meccanismi di “ritualizzazione” dei comportamenti aggressivi, l'animale non arriva a uccidere l'esemplare della stessa specie e in ciò è superiore all'uomo. Altri etologi hanno invece osservato forme di aggressione intraspecifica fino all'uccisione e al cannibalismo anche nei mammiferi.
Tra i punti di vista sull'aggressività, ricordiamo in particolare la teoria della frustrazione-aggressività, secondo la quale un individuo che si vede impossibilitato da cause esterne o anche interne al conseguimento dei propri scopi sperimenterà un vissuto di frustrazione che a sua volta produrrà collera, base di un atto aggressivo. In realtà però non è provato sperimentalmente che le persone frustrate abbiano necessariamente atteggiamenti o risposte aggressive, così come molti atteggiamenti aggressivi non sono scatenati da frustrazione. È stata dunque proposta da Berkowitz una rivisitazione di questa teoria sulla base che la frustrazione sarebbe da intendersi unicamente come causa indiretta dell'aggressività, mentre la collera è la causa diretta dei comportamenti aggressivi. Di conseguenza uno stato di frustrazione porterà presumibilmente un individuo a reazioni aggressive solamente se illegittimo, immotivato o intenzionale. Inoltre ricerche empiriche hanno posto in evidenza come anche l'ambiente di contorno possa influire sui comportamenti aggressivi degli individui (i livelli di aggressività crescono in situazioni già associate ad una qualche forma di aggressività) e come, più in generale persone già attivate emotivamente saranno più propense, se stimolate in questo senso ad assumere atteggiamenti aggressivi.
Invece la teoria dell'apprendimento sociale, proposta da A. Bandura, postula che i comportamenti aggressivi sono attuati dalle persone non a seguito di specifici vissuti emotivi, ma sulla base delle conseguenze positive e dell'approvazione sociale spesso connessa a tali atteggiamenti.
L'aggressività ha un suo ruolo importante anche in psicoanalisi: Freud, dopo la svolta del 1920 sulla dottrina delle pulsioni, arrivò a riconoscere una pulsione aggressiva comprimaria con quella sessuale. Per lo studioso austriaco l'aggressività è talora combinata con la pulsione sessuale, come nel sadismo e nel masochismo, ed è anch'essa soggetta a rimozioni (specie se rivolta contro le persone care), a inversioni (come nella depressione, in cui il soggetto attacca sé stesso per non attaccare l'altro), a spostamenti da un oggetto a un altro (il bambino che rompe i giocattoli a seguito di un rimprovero), a sublimazioni (come nelle battute di spirito). Funzionale alla vita sociale se tenuta a freno, può sempre esplodere nelle forme più irrazionali, individuali o di gruppo. La scuola di M. Klein, insistendo sull'onnipresenza delle fantasie distruttive, individuò le prime espressioni dell'aggressività nel rapporto del neonato col seno materno. In consonanza con vari orientamenti psichiatrici, la introduce poi metodicamente nella descrizione e spiegazione delle psicosi. Lacan e Kohut, pur partendo da presupposti diversi, la spiegano in relazione agli aspetti narcisistici della persona.
In psicoanalisi vi sono anche letture che sottolineano la funzione costruttiva dell'aggressività: già A. Adler la intendeva come spinta all'autoaffermazione, una concezione che avrà fortuna in ambiente anglosassone. I neofreudiani, riprendendo temi del marxismo, imputano la genesi delle forme distruttive allo sfavorevole contesto sociale; tra essi Fromm, in Anatomia della distruttività umana (1973), distingue una forma “maligna” di aggressività da una “benigna”, che è invece adattiva.
L'altruismo
Idealmente contrapposta, a livello sociale, all'aggressività troviamo la tendenza ad aiutare gli altri in maniera disinteressata: questa tendenza prende il nome di altruismo.
È importante sottolineare come i comportamenti altruistici sono fortemente rinforzati dalle norme sociali, le quali indicano come dovere preciso lo stare vicino agli altri quando sono in difficoltà. Anche per questo motivo non è semplice individuare comportamenti da citare come esempio di altruismo “puro”: come essere sicuri che il comportamento degli individui sia effettivamente disinteressato e non guidato dalla volontà di rispettare formalmente le regole apprese a livello sociale, o da vissuti emotivi collegati alla rassicurazione o all'autogratificazione, o ancora dalla speranza di qualche ricompensa più o meno tardiva per le proprie azioni?
Un concetto strettamente legato a quello di altruismo è quello di empatia, cioè l'immediata intuizione e partecipazione emotiva agli stati affettivi altrui. Ad esempio, ci dimostriamo empatici quando ci sentiamo addolorati per un amico che è stato recentemente lasciato dalla fidanzata. Il rapporto con l'altruismo è dato dal fatto che questo avvertire il dolore o lo stato di bisogno degli altri porta generalmente gli individui a mettere in atto comportamenti supportivi e di aiuto, anche quando questo potrebbe causare danni o disagi personali.
Stranamente gli studi degli psicologi sociali evidenziano come, poste davanti a una situazione di emergenza in cui è richiesto un intervento per prestare aiuto, le risposte delle persone siano inversamente proporzionali alla dimensione del gruppo stesso (diffusione di responsabilità): più aumenta il numero delle persone presenti, meno il singolo si sentirà chiamato in causa e meno tenderà ad intervenire. Questo sulla base di un ragionamento del tipo: “Siamo in tanti, perché dovrei intervenire proprio io?”, oppure come reazione al confronto con il comportamento degli altri. Se nessuno interviene per prestare aiuto, l'aiuto stesso appare come meno necessario o forse inopportuno. Inoltre, quando si tratta di prestare aiuto in situazioni di emergenza, l'intervento può avere conseguenze pesanti anche per il soccorritore, sia a livello fisico (intervenire per aiutare delle persone aggredite può portare a diventare a nostra volta soggetti a un'aggressione) che emotivo.
Aiutare non appare dunque più automatico dell'aggredire, anche se spesso si presta aiuto alle persone in difficoltà sulla base di un impulso all'azione, ma in genere il comportamento altruistico, così come tutti i comportamenti sociali dell'uomo, dipendono in gran misura dall'influenza del contesto sociale e della situazione specifica.

 In sintesi

Il linguaggio e la comunicazioneLa lingua e la sua struttura
–I fonemi
–I morfemi
–Regole sintattiche
La comprensione e la produzione del linguaggio
–La disposizione delle parole nelle frasi
–Le relazioni delle parole con i concetti
–Gli enunciati
–Le affermazioni
–Le massime di Grice
Linguaggio e pensiero
–L'ipotesi della relatività linguistica
L'interazione socialeL'uomo come essere sociale
–Bisogno di affiliazione
–Rapporto tra affiliazione e ansia
L'attrazione interpersonale
–L'importanza di: vicinanza, somiglianza, attrazione fisica, reciprocità
–L'amore
Gli Atteggiamenti–Atteggiamenti e conseguenze
–Opinioni e comportamento
–La previsione dei comportamenti
La formazione degli atteggiamenti
–L'esperienza
–I genitori
–I coetanei
–Gli strumenti di comunicazione

La modificabilità degli atteggiamenti
–Teoria dell'equilibrio
–Teoria della dissonanza
Stereotipi e pregiudiziStereotipi
–Generalizzazioni approssimative o strategie mentali?
–L'importanza della cultura
–Come nascono gli stereotipi

Pregiudizi
–Opinioni preconcette
–Pregiudizi e appartenenza a gruppi
–Modificazioni del comportamento
–Come eliminare i pregiudizi
Aggressività e altruismoL'aggressività e le sue cause
–Aggressività ostile
–Aggressività strumentale
–L'aggressività per il comportamentismo
–L'aggressività per Lorenz
–Teoria della frustrazione-aggressività
–Teoria dell'apprendimento sociale
–L'aggressività in psicoanalisi

L'altruismo
–Le norme sociali
–L'empatia
–La diffusione di responsabilità
–Influenza del contesto sociale

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