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domenica 13 gennaio 2013

Sta nascendo l'Accademia Musicale Francesco Cilea


FORMAZIONE MUSICALE DI FASCIA PRE-ACCADEMICA - Finalità:
· rilasciare agli iscritti un titolo valido e spendibile per la continuità didattica e formativa presso il Conservatorio o, in alternativa, al DAMS.
· evitare la dispersione delle risorse umane e finanziarie presenti sul territorio provinciale verso altre realtà formative territoriali limitrofe.
· contenere i costi logistici che graverebbero sulle famiglie degli iscritti residenti in loco.
· incrementare le attività musicali e culturali del territorio.
· favorire la gestione amministrativa e organizzativa dei corsi Pre-Accademici.
· attivare la formazione musicale per bambini e quella serale per adulti.   
Abbiamo progettato
· l’Accademia Musicale “Francesco Cilea” per l’attivazione di  Corsi Pre-Accademici decentrati,  annunciati dalle norme transitorie del DPR 212/05 (art. 14), che prevedono l'abolizione di compimenti e licenze (per la preparazione e l’accesso al Conservatorio), in convenzione con il Conservatorio Statale.
· Corsi di avviamento alla musica per bambini
· Corsi serali di musica per adulti
L’ambiente formativo polivalente, ha l’intento di:
· Realizzare un’armonica integrazione tra la formazione generale di livello secondario superiore e la formazione musicale e coreutica, da intendere quest’ultima, non solo come acquisizione di specifiche abilità tecniche nei vari settori della musica, ma anche come espressione e comprensione dei fatti storici e strutturali della musica stessa, in rapporto alle altre aree culturali.
Stimolare, affinare ed educare la sensibilità e creatività dello studente, in un percorso di continua interazione tra pratica strumentale ed espressivo - corporea e momento teorico-riflessivo, tra esperienze inventive-compositive e consapevolezza culturale, tra il fare, il conoscere e l’essere affettivamente partecipi. Ampliare le conoscenze culturali in un ampio quadro di riferimento in vista di future opportunità lavorative in diversi contesti.
 Corsi offerti dall’Accademia articolati per strumento:
Canto,  Chitarra, Clarinetto, Composizione, Contrabbasso, Corno, Didattica della Musica, Fagotto, Fisarmonica, Flauto, Flauto dolce, Oboe, Organo, Percussioni, Pianoforte,
Sassofono, Tromba, Trombone, Viola, Violino, Violoncello.
Aree formative
Esecuzione e interpretazione, Teoria, analisi e composizione, Musica d’insieme, Storia della Musica, Nuove Tecnologie.
Insegnamenti:
Primo strumento, Secondo strumento, Materie musicali di base, Armonia e Contrappunto, Coro, Orchestra/Musica d’insieme e da camera, Storia della Musica, Informatica Musicale.
Le tipologie di attività formative consistono in lezioni individuali, lezioni a piccoli/grandi gruppi, lezioni teorico-pratiche, laboratori, stage.
Accesso ai corsi di studio. Esami di ammissione
Per essere ammessi ai corsi di fascia Pre-Accademica, è necessario presentare domanda all’Istituto, entro i termini annualmente stabiliti dal Consiglio Accademico. Inoltre bisogna sostenere un esame di ammissione, che stabilisce la graduatoria dei candidati idonei. Entro la fine di ogni anno accademico, secondo il calendario stabilito dall’Istituto, l’allievo dovrà obbligatoriamente sostenere alla presenza di una commissione una verifica intermedia ed esame di certificazione di fine livello.
Durata:
I livello – anni 3
II livello – anni 2
III livello – anni 3          
INFORMAZIONI GENERALI
Il DIPLOMA ACCADEMICO DI SECONDO LIVELLO IN DISCIPLINE MUSICALI, è titolo di studio equiparato ad una laurea universitaria di II livello e conseguentemente riconosciuto all’Estero.
Sbocchi professionali
Il titolo di studio acquisito è equipollente ad una laurea specialistica di II livello e può essere utilizzato per l’accesso a concorsi pubblici. Dà diritto all’acquisizione di un punteggio superiore per l’accesso alle graduatorie per l’insegnamento, laddove previsto dalle normative vigenti. Le competenze acquisite sono inoltre spendibili nell’ambito dell’attività professionale, della didattica strumentale e nel campo della ricerca.
La possibilità di acquisire, attraverso l’articolazione dei piani di studio, una serie di competenze specifiche garantirà un migliore collegamento con il mondo del lavoro, indirizzando gli studenti verso specifici ambiti professionali, dove il musicista possa esercitare la sua professione in qualità di dipendente occasionale o stabile di enti pubblici e privati, ma anche in qualità di libero professionista e di “imprenditore culturale”.
Obiettivi formativi e caratteristiche professionali
Il corso sperimentale di studi per il conseguimento del DIPLOMA ACCADEMICO DI SECONDO LIVELLO IN DISCIPLINE MUSICALI, rivolto agli studenti che hanno già conseguito un diploma accademico, è articolato in Indirizzi che danno specifica denominazione al titolo finale offrendo un percorso formativo destinato alla acquisizione di competenze di livello specialistico in ambito interpretativo- compositivo.
L’Accademia Musicale “Francesco Cilea” propone un ricco programma didattico per tutte le età, con corsi che spaziano dalla musica classica a quella moderna.
Uno dei più importanti obiettivi della scuola è l’avvicinamento alla musica dei più piccoli, con la creazione di diversi gruppi di musica d’insieme, validi anche per favorire la socializzazione tra i giovani musicisti.

La scuola conta sulla collaborazione di un ampio staff di insegnanti-musicisti attivamente presenti sulla scena musicale nazionale ed internazionale il che permette all’AM di diventare un punto di riferimento non solo per chi vuole cominciare una carriera di musicista, ma anche per chi vuole trovare un ambiente confortevole dove esprimere la propria passione. 
Sede:   
L’Accademia ha sede in zona Alto Tirreno Cosentino. All’interno dell’edificio saranno le aule di musica, il laboratorio di informatica musicale e le aule delle materie culturali dotate di pianoforte. Gli esami annuali si svolgeranno in  sede, con una commissione di Docenti del Conservatorio Statale.

L’Accademia Musicale Francesco Cilea  si propone nel panorama dei percorsi formativi della nostra regione come unicum, con l’obiettivo di stimolare e educare la sensibilità e la creatività degli studenti, partendo da solidi riferimenti culturali.

Data l’unicità della proposta si rivolgeranno alla nostra scuola studenti da tutto il cosentino  e anche da fuori provincia. 

A breve info più precise!!! 


     

 

PREVENZIONE E COMPORTAMENTI PROSOCIALI




Nel periodo dai tre ai sei anni circa, le abilità sociali dei bambini si arricchiscono grazie alle maggiori occasioni di contatto con i coetanei e con adulti al di fuori della famiglia: l’ingresso alla scuola materna rappresenta per il bambino/a una importante esperienza sociale allargata.
Il bambino entra a far parte in modo stabile di un gruppo di coetanei, con i quali ha l’opportunità di compiere nuove esperienze di gioco, ma la convivenza gli pone nuove sfide: capire il punto di vista dell’altro e adattarvisi almeno in parte, collaborare con i compagni e frenare gli impulsi aggressivi, imparare a difendersi quando occorre.
I rapporti con i coetanei contribuiscono in modo sostanziale allo sviluppo delle competenze sociali e la mediazione dell’adulto è necessaria per far sì che il bambino si adegui alle nuove regole di comportamento.
E’ importante tenere presente che l’aggregazione dei bambini nelle istituzioni educative può portare alla nascita di frequenti litigi e tensioni che sono da considerare tuttavia normali.
Il bambino ha, in effetti, il diritto a vivere il conflitto o il litigio perché ciò rappresenta per lui una specifica forma di apprendimento per l’acquisizione di regole sociali: è nel conflitto, infatti, che il bambino scopre il senso del limite, ovvero la presenza degli altri, siano essi adulti o coetanei. In questo contesto relazionale, il bambino impara ad arginare il proprio egocentrismo, a controllare i propri impulsi aggressivi e a riconoscere la resistenza dell’altro.
Insomma, nel conflitto il bambino vive un’esplorazione personale come vera area di crescita formativa.
Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno dimostrato che il bambino in età prescolare è desideroso di contatti con l’altro ed è in grado di sviluppare rapporti significativi con i coetanei e con gli adulti di riferimento e di mettere in pratica una infinità di strategie per favorire e mantenere questi rapporti.
Inoltre, varie ricerche hanno individuato nei bambini la capacità di comportarsi con modalità “empatiche”, in modo collaborativo e cooperativo, e non ultimo la capacità di risolvere in maniera positiva un conflitto.
Questi aspetti sono definiti come comportamenti “prosociali”, dove alla radice di questi atti c’è la comprensione dell’altro e la conseguente  e adeguata reazione emotiva.
I bambini e le bambine spendono una considerevole dose di saggezza per riuscire a risolvere le eventuali situazioni conflittuali, confrontandosi tra loro e negoziando soluzioni accettabili sul piano interpersonale:
tuttavia, sia pure in un limitato numero di casi, i conflitti possono sfociare in aggressioni fi siche o verbali.
Per evitare che questo accada, è necessario che il bambino riconosca e comprenda le emozioni che entrano in campo (rabbia, aggressività, competizione, paura ecc.) ed è quindi opportuno sostenerlo nel riconoscimento, nella comprensione e nella gestione di tali emozioni.
Spesso nel conflitto la rabbia prende il sopravvento sul bambino che, trovandosi davanti a tale esperienza emotiva disarmato ed impotente, è portato a trasformarla in taluni casi in aggressività e/o violenza. Questa “impotenza” è alla base del disagio che egli prova  nell’affrontare una relazione conflittuale, nel sentirsi pervaso dalla propria condizione
emotiva che non conosce o non riconosce e che pertanto lo spaventa.
La rabbia è un sentimento che ogni individuo prova e deve provare:
come tutte le condizioni emotive è positiva ed è possibile esprimerla senza violenza, senza danneggiare se stessi o il prossimo. La rabbia repressa, invece, può diventare esplosiva e dannosa in quanto può trasformarsi in violenza e/o sopruso verso l’altro.
I bambini, anche se piccoli, possono imparare quale limite devono imporre ai loro comportamenti per il proprio bene e l’altrui sicurezza, ma è necessario educarli a gestire queste emozioni trovando delle modalità di espressione che risultino efficaci e non distruttive.
L’educazione a questa emozione, intesa come il suo reale riconoscimento, è quindi necessaria per prevenire future disfunzioni relazionali sin dall’età prescolare.
• Dietro alla rabbia del bambino possono nascondersi sensazioni di sofferenza, paura e impotenza. La comprensione da parte dell’adulto diventa fondamentale perché per il bambino è essenziale sapere di essere “riconosciuto” e compreso dall’adulto (empatia adulto/ bambino). In questo modo egli si sente valorizzato e ciò lo aiuta a sviluppare un sano concetto di sé.
• La comunicazione con il bambino deve essere tale da fornirgli un vocabolario adatto a parlare delle proprie emozioni e delle occasioni per poterle esprimere.
• Aiutare il bambino ad esprimere senza paura le proprie emozioni, ad esempio iniziare la conversazione dicendo “Sembra proprio che tu sia arrabbiato. Me ne vuoi parlare?”. Questo aiuta il bambino a trovare delle parole per esprimere ciò che sente e quindi scaricare la tensione.
• Aiutare il bambino a riflettere e a capire quando si sente arrabbiato, perché e cosa vorrebbe fare è un buon inizio per prendere dimestichezza con le proprie emozioni.
• Evitare di rispondere alla rabbia dei bambini con aggressività; questo non farebbe altro che esasperarli.
• Dare regole chiare, precise e motivate aiuta il bambino a fargli capire la regola e perché va osservata (ad esempio aiutandolo a capire la reazione dell’altro).
• Far capire ai bambini che comprendiamo le loro emozioni: “Si vede che sei molto arrabbiato”.
• Un buon ascolto aiuta a far sbollire la rabbia ed accresce l’autostima dei bambini.
• I bambini imparano di più da ciò che gli adulti fanno che da quello che dicono. Sarebbe opportuno che ogni adulto valutasse la propria modalità di risoluzione dei conflitti.
Si può davvero concludere che i bambini, in età prescolare, dovrebbero aver già acquisito delle strategie che permettano loro di risolvere le situazioni di conflitto e che lascino spazio all’ascolto dell’altro (controproposte, mediazione, compromesso) piuttosto che utilizzare
delle soluzioni che producono rottura dei rapporti o soluzioni violente.



BULLISMO Il diritto minorile e l’ordinamento italiano. Bullismo e mediazione. Baby-gang e diritto.


1. Il diritto minorile e l’ordinamento italiano.

Negli ultimi anni i quotidiani hanno riportato eventi di reati terribili commessi da minori: omicidi, violenze sessuali, rapine e atti di violenza, portando l’attenzione ed un allarme sociale in crescendo sulla relazione tra criminalità e mondo minorile.

A tale proposito è necessario però sottolineare subito come la criminalità minorile non sia affatto in aumento rispetto al passato. In realtà i minori italiani denunciati, nei confronti dei quali l’autorità giudiziaria ha dato seguito all’azione penale, nel 1991 sono stati 27.223 mentre nel 2000 si sono ridotti a 17.535, indicando un chiaro decremento. Tanto meno si è registrato un incremento dei reati più gravi. A partire dagli anni novanta si è registrato una maggiore partecipazione di minori stranieri ad azioni criminali. Gli omicidi che nel 1977 sono stati 80, sono scesi a 62 nel 1980, a 50 nel 1981, 41 nel 1990 per divenire 47 nel 1998 e 53 nel 2000,

così come i numeri di rapine, estorsioni e sequestri di persona sono o stabili o in decremento: se vi sono state 1454 denunce nel 1990 e 1.486 nel 1991, alla fine degli anni novanta si è registrato un incremento, 1970 denunce nel 1998, e un decremento nel 2000 con 1.509 denunce[1].

L’attuale generazione di giovani vive un’epoca che li vede coinvolti in una vita sotto alcuni aspetti più adulta rispetto le generazioni passate, complessa, articolata, fatta di tensioni e ruoli da rivestire, in un tessuto sociale ed economico vario e mutevole e che non sempre riesce a dare una risposta matura e idonea da parte del mondo degli adulti.

Questo squilibrio ha portato per molti una maggiore difficoltà nel processo di sviluppo e maturazione individuale, tanto che solo apparentemente il giovane è più capace che nel passato di compiere coscientemente scelte libere, a seguito dei molti condizionamenti che gli

impediscono o rendono più difficile l’acquisizione della capacità di libera determinazione.

Il passaggio all’età adulta si manifesta con la realizzazione della personalità che non si limiti all’adesione a modelli esterni conformisti, che non sia non ripiegata su di sé e sulle proprie esigenze, non condizionata, e non solo con l’uscita dalla casa dei genitori. Significa cioè strutturare una personalità capace di superare le ansie, i fallimenti, le rinunce, avere una propria e autonoma chiave di lettura della realtà.

In riferimento a quanto sopra possono essere presi in considerazione i fenomeni del bullismo e delle baby-gang, sebbene risulta utile fare alcuni cenni sugli elementi tipici del diritto minorile per meglio comprendere la loro rilevanza ed il loro rapporto con la giustizia minorile, soprattutto in materia penale.

Il diritto minorile si discosta dal diritto penale ordinario sotto molteplici aspetti.

Oltre al Tribunale Minorenni chiamato a giudicare i minori autori di reato, tutto l’ordinamento tende a una concezione del minore più attenta alla particolare fase dell’età evoluta in cui si ritrova il soggetto.

In passato il concetto di colpa, ovvero di una cosciente e piena responsabilità morale in chi ha violato la legge, e il concetto di punizione-riparatrice attraverso la sofferenza derivante dalla privazione della libertà personale, costituivano le basi del sistema penale non solo per l’adulto. Ancora nel secolo scorso, infatti, anche il sistema penale minorile, pur prevedendo pena inferiori e la possibilità di rinuncia alla pretesa punitiva, si radicava ancora nella convinzione che alla base del comportamento illecito ci fosse il ‘traviamento’ del soggetto secondo il

principio malizia supplet aetatem e che la segregazione coattiva anche temporanea del reo fosse il solo modo di intervento e correzione.

Il primo importante intervento di cambiamento è stato posto in essere dalla Costituzione che afferma all’art. 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…” sottolineando la

funzione rieducativa che la pena deve avere e abbandonando il principio dell’esclusiva funzione punitiva o contenitiva.

In tal modo, accertato il fatto, la persona che lo ha commesso e la possibilità del suo recupero sociale divengono fulcro dell’azione giudiziaria, portando alla formulazione di vari istituti quali pene sostitutive e alternative alla sanzione detentiva o modulazione della pena nel corso della sua esecuzione in relazione alle prove di recupero del condannato.

In ambito minorile a maggior ragione si è iniziato a prendere in considerazione le difficoltà che l’adolescente o il bambino possono incontrare lungo il proprio itinerario di personalizzazione e

socializzazione, i condizionamenti e le suggestioni che possono inquinare un regolare processo formativo.

Il sistema penale minorile tende quindi a superare il binomio ‘colpa-sanzione’ per giungere al binomio ‘irregolarità-recupero’.

Parlare di colpa in senso tecnico risulta difficile in riferimento ai minori poiché molti  comportamenti pur penalmente rilevanti non sono espressione di una inclinazione o di un fallimento del processo di socializzazione, ma solo momenti occasionali di sbandamento tipici

dell’età adolescenziale. In questa fase evolutiva infatti il soggetto è portato a voler sperimentare e dominare ogni cosa, a valutare e mettere in discussione se stesso e i valori che gli sono stati trasmessi, a verificare le proprie capacità e le proprie valenze.

E’ un momento di ribellione che è stato definito ‘quasi fisiologico’ ai fini dell’acquisizione di autonomia, che nel passaggio dalla condizione di dipendenza causa sofferenza e ansie.

Il procedimento penale minorile è disciplinato dal D.P.R. 33 settembre 1988, n. 448 e dalle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del D. Lgs. 28 luglio 1989, n. 272.

Tale disciplina è autonoma rispetto al procedimento ordinario al fine di garantire e realizzare lo scopo di tutela del minore imputato per il qual è necessario accertare nel corso del processo l’esistenza o meno della sua imputabilità, valutandone la capacità di intendere e volere.

Tra le peculiarità del procedimento bisogna evidenziare le caratteristiche rilevanti all’argomento qui trattato:

a) come tutti i soggetti istituzionali che son parte del procedimento minorile i giudici minorili hanno una particolare specializzazione “effettiva e specifica preparazione e professionalità di tutti i soggetti istituzionali che operano nel processo minorile” (Reg. Prog. Prel. Proc. Min. 210) e si caratterizzano inoltre per la composizione ‘mista’ facendo parte dell’eventuale collegio, giudici non togati o anche detti ‘laici’, quali psicologi, in modo tale da garantire non solo la legalità, ma anche la multi-disciplinarietà delle complesse valutazioni sulla personalità

dell’imputato. Proprio a tale fine l’udienza preliminare a differenza del procedimento ordinario si svolge di fronte ad organo collegiale composto di tre, un giudice togato e due onorari.

b) il processo deve avere come obiettivo la realizzazione di una ripresa dell’itinerario educativo del minore che il compimento dell’atto criminoso dimostra essersi interrotto o aver deviato, ma prevede che lo stesso processo si articoli in modo tale da poter contribuire allo svolgimento di questo itinerario avendo esso stesso valenze educative, tanto che “tutte le disposizioni devono essere applicate in modo adeguate alla personalità e alle esigenze educative del minorenne” tenendo conto anche dell’esigenza di non interrompere i processi educativi in atto (art. 19 comma 2).

Ne sono esempio l’art. 9 D.P.R. 448/88, Accertamenti sulla personalità del minorenne, dispone che Il P.M. e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e risorse personali familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto, nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili. Agli stessi fini il PM e il giudice possono assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti anche senza alcuna formalità” e l’art. 27 comma1, Sentenza di non luogo a

procedere per irrilevanza del fatto, che prevede che durante le indagini preliminari, “se ritenuta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il PM chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne”.

Il minore è destinatario di disposizioni di favore sia in relazione ai provvedimenti limitativi della libertà personale, sia in ordine alle procedure di definizione anticipata del procedimento e al giudizio dibattimentale secondo il principio detto favor minoris, non lasciando dominare un senso punitivo del Tribunale.

Alla luce di tutto questo l’ordinamento italiano si trova a misurarsi con la realtà della devianza e della criminalità minorile che cambia a seguito della mutevolezza sociale e culturale sia della popolazione in Italia sia secondo le caratteristiche dell’età giovanile stessa.

Il termine devianza, utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni trenta al fine di comprendere con un unico concetto una serie di problemi sociali, è stata introdotta in Italia solo negli anni sessanta allo scopo di superare distinzioni troppo rigide e troppo cariche di valenza negativa quali pazzia e criminalità.

Il concetto di devianza comprende situazioni molto diverse, se sempre di opposizione a regole di varia natura, non sempre assimilabili o comunque sempre indicative di un radicale contrapporsi a fondamentali valori sociali tali da suscitare nella collettività forti reazioni di censura, tanto che spesso diversità o marginalità sono state o ancora sono sinonimi di devianza.

La nozione di devianza nel settore minorile in particolare ha reso possibile prendere in considerazione tutte quelle difficoltà nel processo di personalizzazione e di socializzazione che non sempre si esprimono in comportamenti penalmente sanzionabili, ma che si estrinsecano anche in modi di vita ancor più gravemente sintomatici di posizioni autodistruttive o laceranti il tessuto sociale.

Devianza non è soltanto il radicato rifiuto dei valori o passaggi sociali prescritti, ma anche violazione di norme fondamentali che consentono lo sviluppo della persona e la convivenza sociale, e pertanto si distingue da disadattamento e disagio.

Il disadattamento è l’espressione di difficoltà del soggetto di comunicare con se stesso, con il mondo delle cose, delle persone e dei valori in maniera adeguata. E’ la conseguenza di gravi difficoltà relazionali personali e/o sociali e di insufficiente strutturazione del proprio “io” individuale e sociale.

Il giovane in un certo senso è sempre un “disadattato” poiché il suo processo di identificazione e socializzazione è in corso e quindi la strutturazione non è ancora avvenuta. Ovviamente il  disadattamento fisiologico’ del giovane è ben diverso da uno più accentuato in cui, in risposta a condizioni di vita educativamente inadeguate, si vanno consolidando atteggiamenti tendenzialmente lesivi o illeciti.

Il disagio è invece una situazione di difficoltà, ambientale o relazionale, che rende meno  lineare il difficile percorso di sviluppo.

Si deve riconoscere che disagio, disadattamento e devianza possono costituire fasi diverse di un unico percorso involutivo e pertanto è necessario intervenire sin dall’emergere della situazione di disagio per risolvere problemi che se non affrontati possono portare a forme sempre più gravi di disadattamento prima e devianza poi.

Il comportamento del deviante può sfociare in comportamenti sanzionabili penalmente poiché portano il soggetto alla realizzazione di delitti, sebbene non tutte le devianze si esprimono sempre in comportamenti penalmente sanzionati.

Nel caso in cui la devianza si manifesti in comportamenti non sanzionati penalmente dal nostro ordinamento il magistrato minorile può adottare misure di recupero definite rieducative.

Nello specifico l’art. 25 delle legge sui minori dispone che le misure rieducative possono essere disposte solo nei confronti di minori che diano “manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere”.

Per irregolarità della condotta si intende un insieme di comportamenti posti in essere che evidenziano, senza dubbio, una grave difficoltà nel seguire i ritmi della crescita attraverso comportamenti regressivi e dimostrativi di un rifiuto ad aderire al principio di realtà.

Varcellone ha definito i casi in cui è intervengono le misure succitate:

quando sussiste un grave pericolo per il minore a seguito del suo comportamento che lo porta a situazioni gravemente pregiudizievoli per la sua salute psico-fisica; nel caso in cui in cui sussiste una situazione di plagio da parte di adulti che rende necessario intervento per spezzare cerchio di paura e violenza; quando minori commettono reati che per qualità o quantità mostrano che il minore si va strutturando secondo modelli criminali[2].

In ambito di intervento penale, il sistema minorile è divenuto oggi più duttile e funzionale ad un integrale recupero del deviante.

Risulta evidente come molti comportamenti penalmente rilevanti non sono nel minore espressione di una inclinazione o di un fallimento del processo di socializzazione, ma sono soltanto momenti occasionali di sbandamento del minore nel difficile momento della crisi adolescenziale di cui già sopra. In queste condizioni di vita il minore può porre in essere

comportamenti oggettivamente illeciti ma che soggettivamente non sono affatto indice di asocialità o antisocialità.

Al riguardo bisogna ricordare come il diritto processuale minorile preveda due istituti di rinuncia all’applicazione di una sanzione penale, in particolare la ‘irrilevanza del fatto’ ed il ‘perdono giudiziale’.

Tra i fenomeni di maggior rilievo appare il forte incremento della violenza nelle scuole e negli stadi.

Nel caso della scuola tale fenomeno risulta in crescita nelle scuole elementari e medie, non ha alla base il solo rifiuto dell’autorità scolastica.

Le condizioni sociali, familiari, economiche e culturali vanno valutate per come sono vissute dal ragazzo, per la visione del mondo che questi si costruisce interagendo con esse.

L’intervento risolutivo va perciò centrato non sulle situazioni o comportamenti esteriori quanto sulla loro ricaduta sul vissuto del ragazzo.

2. Bullismo e mediazione

Il fenomeno del bullismo a scuola è una realtà da molto tempo, anche se uno studio attento del fenomeno ha avuto origine solo nel corso degli anni ’70 specialmente in Scandinavia. Dalla fine degli anni ottanta e nel corso del decennio successivo però il bullismo è stato oggetto di

attenzione in diverse nazioni tra cui Giappone, Regno Unito, Olanda, Canada, Stati Uniti e Australia.

Senza dubbio i dati relativi al bullismo in Nord Europa sono più allarmanti rispetto all’Italia. Tra le motivazioni rientra anche quella della diversità di culture educative, che al nord sono fondate sui detto ‘codici paterni’. Tali codici sono fondati sulla formazione di sé attraverso la

conquista, l’avventura, il mettersi in gioco, l’affermarsi, elementi psichici che contribuiscono lo scontro tra maschi. Nei paesi del bacino e di cultura mediterranea vigono al contrario i ‘codici materni’ contraddistinti da un senso protettivo implicito che determina una minore pressione sul versante della sfida, per cui le madri tendono a smussare il senso di duello interpersonale fra i maschi con la paura che si facciano male o il pericolo[3].

Il bullismo è un fenomeno che è caratteristico dell’età più giovane coinvolgendo bambini durante gli anni della scuola elementare, media per poi diminuire durante gli anni delle scuole superiori, ma in molti casi ha avuto effetti dirompenti sulle vittime, tanto da determinare molti casi di suicidio.  Caratteristica fondamentale è il rifiuto di ogni tipo di regole.

Il bullismo si realizza in varie realtà, ma senza dubbio ha grande rilevanza nella scuola che proprio per il suo ruolo unico per i ragazzi di quella età è necessario fermare o limitare per quanto possibile. Occhiogrosso sottolinea la necessità di considerare il fenomeno nel

contesto di altri fenomeni di disagio giovanile al fine di comprenderne la vera valenza, collocandolo nell’ambito del fenomeno noto come ‘malessere del benessere’ ovvero ‘teppismo per noia’ che sta emergendo in tutta Italia a partire dagli anni novanta, per la sua aggressività

gratuita[4].

Ulteriore elemento caratterizzante, l’ingresso nella devianza del cosiddetto ceto medio poiché coinvolge ragazzi appartenenti a status sociali diversi.

Il termine inglese ‘bullying’ da cui l’italiano bullismo, è ormai utilizzato a livello internazionale , e secondo la definizione di Olweus (1986, 1991) “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo,

alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni[5] o come “un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente ed è difficile  difendersi per coloro che ne sono vittima” (Sharp e Smith 1995).

L’azione offensiva si realizza quando una persona infligge intenzionalmente o arreca danno o disagio a un’altra, anche tramite l’uso delle parole, minacce, rimproveri o ingiurie e prese in giro, altre volte tramite la forza o il contatto fisico, picchiando, spingendo malmenando, sbeffeggiando ecc. Il bullo compie azioni, individuali o collettive, che mirano a ferire, in un comportamento duraturo nel tempo, giorni, settimane, mesi se non anni, ed alla sua base c’è essenzialmente un abuso di potere, un desiderio di intimidire e dominare, assumendo espressioni e forme diverse: verbali (es. derisione o indulti), fisiche (pugni, rovina di beni personali) o indirette (es. pettegolezzi).

Anche un solo avvenimento può essere considerato episodio di bullismo e può essere rivolto sia contro un singolo individuo sia un gruppo. Per poter parlare di bullismo è però necessario che vi sia un’asimmetria nella relazione. Lo studente esposto ad azioni offensive ha difficoltà nel

difendersi e si trova, in qualche modo, in una situazione di impotenza contro colui o coloro che lo molestano.

I bulli infatti hanno un atteggiamento spesso istintivo, vantano la propria superiorità, la loro tolleranza della frustrazione è piuttosto bassa, oltre ad una grande difficoltà nel rispettare le regole e nel tollerare le contrarietà e i ritardi. Agiscono in un atteggiamento positivo verso la violenza ed hanno una buona considerazione di sé. Il rendimento scolastico diminuisce negli anni con una parallela crescita di rifiuto e atteggiamento negativo verso la scuola. Si parla anche di bulli ‘passivi’ che non partecipano attivamente agli episodi ma lo appoggiano e condividono.

Il bullismo si distingue in ‘diretto’, che si manifesta in attacchi relativamente aperti nei confronti della vittima, e ‘indiretto’ che consiste in una forma di isolamento sociale e in una intenzionale esclusione dal gruppo.

Gli studenti prevaricati per un certo periodo di tempo, tendono ad esserlo per diversi anni, così come gli studenti aggressivi tendono a esserlo anche successivamente a distanza di tempo, come emerso da diversi studi condotti in Inghilterra e America.

Sebbene a volte si tenda a riconoscere caratteriste esteriori ‘negative’ caratterizzanti le vittime, quali obesità o capelli rossi, in realtà ricerche condotte su gruppi di ragazzi non confermano tale teoria (Olweus 1973a, 1978). Nel complesso infatti le vittime non presentano caratteristiche esteriori anomale rispetto al gruppo di controllo dei ragazzi non prevaricanti.

Unico contrassegno esteriore è la differenza di forza fisica, essendo di solito le vittime più deboli dei ragazzi in generale, mentre i bulli sono più forti della media dei ragazzi ed in particolare delle vittime.

Si possono però indicare alcune caratteristiche comuni per coloro che vengono identificati quali vittime passive o sottomesse: sono più ansiosi e insicuri degli studenti in genere, cauti, sensibili e calmi, se picchiati piangono o si chiudono in sé, hanno scarsa autostima e opinione negativa di sé, si considerano fallite, poco attraenti, stupidi e timidi, a scuola vivono una condizione di solitudine e abbandono e non sono aggressivi, confermando il principio secondo il quale il bullismo non è provocato dalle vittime.

Sembra che il comportamento e l’atteggiamento delle vittime passive segnalino agli altri l’insicurezza, l’incapacità, nonché l’impossibilità o difficoltà di reagire di fronte agli insulti ricevuti. Sono cioè caratterizzate da un modello reattivo ansioso o sottomesso, associato, nei maschi, alla debolezza fisica.

Parte della dottrina sostiene che queste vittime abbiano avuto nei primi anni di vita un rapporto molto stretto con i genitori, in particolare con la madre e spesso gli insegnanti parlano di iper-protezione che sembra essere sia causa sia conseguenza del bullismo.

Le cosiddette vittime provocatrici sono caratterizzate da una combinazione di entrambi i modelli reattivi, ansioso ed aggressivo, e presentano problemi di concentrazione, tengono comportamenti causa di irritazione e tensioni, ed alcuni possono essere definiti iper-attivi.

Le dinamiche del bullismo connesse alla presenza di vittime provocatrici differiscono in parte da quelle che coinvolgono vittime passive.

In genere il bullo ha un atteggiamento aggressivo indifferentemente verso coetanei ed adulti, atteggiamento più positivo verso la violenza e l’uso di mezzi violenti, contraddistinto da impulsività e forte bisogno di dominare, scarsa empatia nei confronti delle vittime, hanno un’opinione relativamente positiva di se stesso e se maschi sono fisicamente più forti dei coetanei.

Un’opinione diffusa tra psicologi e psichiatri è che gli individui con un modello di comportamento aggressivo e ostile sono al di là delle apparenze ansiosi e insicuri, ma i risultati di alcuni studi condotti tramite metodi indiretti come la rilevazione degli ormoni dello stress (adrenalina e noradrenalina) e tecniche proiettive confutano tale tesi e al contrario sostengono una tendenza opposta: i bulli mostrano poca ansia e insicurezza e non offrono di scarsa autostima, sebbene tali conclusioni si riferiscono ai bulli come gruppo il che non esclude che possano esserci singoli bulli sia aggressivi che ansiosi (Olweus).

In conclusione quindi i bulli rispondono a un modello reattivo aggressivo associato alla forza fisica. Tra le possibili cause psicologiche che soggiacciono al comportamento del bullo, si possono segnalare: un forte bisogno di potere e dominio per cui sembra trarre soddisfazione nel controllare e nel sottomettere gli altri; lo sviluppo di un certo grado di ostilità verso l’ambiente, in concomitanza di inadeguate condizioni familiari; infine una componente ‘strumentale’ in considerazione dei vantaggi che derivano dal sopruso quali ad esempio denaro, sigarette, birra o altri oggetti di valore.

Il bullismo può anche essere visto come aspetto di un più generale comportamento antisociale caratterizzato dalla mancanza di rispetto delle regole, ovvero disturbi della condotta.

Da questo punto di vista è naturale aspettarsi che i giovani aggressivi e prevaricatori incorrano più facilmente nel rischio di essere coinvolti in altri comportamenti problematici, quali la criminalità o l’abuso di alcool.

Di fatto una serie di studi conferma questa tesi (Loeber e Dishion 1983). Alcun ragazzi non aggressivi partecipano ad episodi di bullismo per una induzione del senso di responsabilità individuale che a seguito di un’azione offensiva può ridursi considerevolmente quando più persone ne prendono parte. Ciò porta ad una ‘diffusione’ o ‘diluizione’ della responsabilità che riduce il senso di colpa dopo l’episodio e col trascorrere del tempo possono verificarsi dei cambiamenti nella percezione della vittima da parte dei compagni di scuola.

A volte si verifica un indebolimento del controllo e dell’inibizione nei confronti delle tendenze aggressive, secondo il principio fondamentale per il quale l’osservazione di un modello, ‘ricompensato’ per il comportamento aggressivo manifestato, porta alla diminuzione delle

inibizioni dell’osservatore nei confronti della propria aggressività. Di contro se l’azione di colui che funge da modello viene ‘punita’, ciò porta a rafforzare tale inibizioni. Nel bullismo questo meccanismo opera per il fatto che il modello, il bullo, viene ricompensato dalla vittoria riportata sulla vittima.

Molto spesso al comportamento del bullo corrispondono scarse conseguenze negative da parte di terzi , insegnanti, genitori e compagni.

Questo contribuisce ad indebolire il controllo delle tendenze aggressive negli osservatori neutrali stimolandoli a partecipare ad azioni di bullismo.

Inoltre con il trascorrere del tempo possono verificarsi cambiamenti nella percezione della vittima da parte dei compagni di scuola. In seguito ai continui attacchi e commenti dispregiativi, la vittima può essere gradualmente percepita come una persona incapace, che per questo merita di essere picchiata o molestata.

Come appare evidente da quanto sopra numerosi sono i fattori che possono concorrere a determinare l’adesione ad atti di bullismo da parte di bambini o adolescenti, fattori che a volte svolgono un’azione in senso contrario. Gli atteggiamenti, abitudini e comportamenti degli insegnanti ad esempio sono determinanti nella prevenzione e controllo di azioni di bullismo così come nel trasformare tali azioni in forme socialmente più accettabili. Lo conferma la correlazione negativa tra la supervisione esercitata dagli insegnanti durante l’intervallo e il verificarsi di episodi di bullismo.

Nella realtà italiana il bullismo è risultato essere ben più comune e diffuso di quanto immaginato o comunemente ritenuto. I dati pubblicati nel 1995 nella rivista “Psicologia contemporanea” relativi ai risultati parziali di un primo studio condotto a Firenze e a Cosenza rivelano la valenza del fenomeno, dati emersi a seguito di ricerche condotte e coordinate dalla Prima Cattedra di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Firenze[6]. Dai dati è emerso un livello di bullismo anche più elevato di paesi quali Inghilterra, Spagna, Norvegia e Canada.

Relativamente alle caratteristiche del detto atteggiamento ne sono state identificate alcune in comune con la realtà culturale inglese: con l’avanzare dell’età l’atteggiamento verso i bambini prepotenti diventa sempre meno comprensivo, aumentano la sensibilità ed il sostegno a

coloro che subiscono atti di violenza, le ragazze sono maggiormente critiche verso i compagni prepotenti, i bulli tendono a sottovalutare gli effetti delle proprie azioni sui compagni, dimostrandosi indifferenti o poco comprensivi.

Senza dubbio l’adesione a certi codici di comportamento quali il bullismo e il tipo di relazione che ne conseguono sono alla base spesso di futuri problema nella collettività.

Tra le risposte che si è cercato di dare al fenomeno bullismo sono senza dubbio da segnalare le iniziative prese dalle scuole, in particolare dalle scuole più a rischio, che hanno disposto ad esempio iniziative di educazione alla legalità.

L’autorità governativa ha tentato il coinvolgimento della forza di polizia cercando di rafforzare il rapporto con la scuola e gli studenti, rendendo costante la presenza di macchine e poliziotti all’uscite delle scuole ed organizzando momenti di incontro.

Poiché il principio di legalità e di rispetto delle regole non può però essere solo imposto in modo autoritario, ma deve essere compreso e condiviso anche dai più giovani, non può essere il metodo punitivo-repressivo il solo modo di intervento, ancor più in ragione del fatto che il

bullo è in realtà un soggetto debole.

Ricordando inoltre che il bullismo coinvolge minori che prevalentemente frequentano scuole elementari e medie, e per tanto n prevalenza minori di quattordici anni non sono imputabili per il sistema penale italiano.

La mediazione allora risulta essere una possibile e ottima soluzione per molti tipi di conflitto che sfociano in episodi penalmente rilevanti.

La mediazione offre un approccio culturale e metodologico relativamente nuovo per l’Italia alla gestione dei conflitti che pone attenzione centrale all’autore e alla vittima del reato.

Suo obiettivo è facilitare la presa di coscienza e responsabilizzazione dell’autore del reato e contemporaneamente dare rilievo e riconoscimento alla vittima, poiché nel processo minorile questa ultima ha spazi ben limitati riguardo alle istanze di ascolto e risarcimento del danno.

La mediazione prepara il terreno per giungere ad una conciliazione anche in termini riparativi, in un luogo appositamente più vicino alla vittima,alla sua identità, ai bisogni e le paure. La vittima viene considerata come “attore sociale” e non solo come testimone.

La mediazione consente all’autore del reato un confronto diretto con il danno ed il dolore subiti dalla vittima facilitando l’attribuzione di significato relazionale al reato ed eventuali attività riparative.

Tale approccio può favorire l’azione propositiva del minore individuabile in forme diverse di riparazione che assolvono alla soddisfazione della vittima ed alla connessa alla connessa estinzione del “debito sociale” con l’ulteriore effetto di allentare il senso collettivo di insicurezza. La mediazione si propone sotto tre diversi profili:

a) la mediazione come particolare tecnica di intervento realizzata tramite un terzo neutrale, il mediatore, tendente al superamento o riduzione del conflitto tra due soggetti mediante il loro incontro-confronto. Pertanto viene utilizzato nei casi più diversi, tanto che nella normativa internazionale viene utilizzato in varie normative;

b) mediazione come nuova modalità di intervento giudiziario, che prendendo atto della crisi del sistema retributivo- riabilitativo propone una nuova risposta. In questo caso il termine

‘mediazione’ è abbinato molto spesso al termine riparazione e viene pertanto un mediazione-riparazione;

c) mediazione come progetto sociale globale ispirato ad una nova filosofia del rapporto-confronto dei due grandi temi del diritto e della violenza. Restituisce un ruolo di protagonisti ai soggetti coinvolti nel conflitto e quindi proviene dal basso non è quindi né autoritaria né violenta come sono invece gli interventi tradizionali provenienti dall’alto. Suo fine è realizzare la pace sociale come ricerca della società intera non solo dello stato.

Nel diffuso clima di conflittualità purtroppo vengono meno quelli che possono essere definiti “mediatori naturali” così come spazi collettivi per rielaborare e stemperare le tensioni. Rimmel scriveva nel 1951 “Un impulso aggressivo da solo non può spiegare il sorgere di un conflitto. Il

comportamento nasce sempre su un terreno sociale e il conflitto come fenomeno sociale può essere compreso solo all’interno di un sistema di interazione”.

La mediazione non si pone a tal proposito quale surrogato del processo legale, ma si basa su premesse di libertà svincolate da regole precostituite e implica assunzione di responsabilità.

Nel settore penale la mediazione riguarda i conflitti tra vittima e reo e ha

come riferimento normativo il D.P.R. 448/88 che prevede che in ‘ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si avvale dei servizi minorili dell’Amministrazione della Giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali’; l’art. 9 prevede che il PM e il giudice acquisiscano elementi relativi le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale dl fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili; all’art. 12 prevede che al minore sia

assicurata l’assistenza dei servizi di cui all’art. 6; l’art. 28 prevede che ‘con ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di

osservazione, trattamento e sostegno’.

Il nuovo approccio della mediazione al reato e alla risposta penale che si ricorda presentano un modello di giustizia retributiva che si integra con quello di giustizia riparativa, ridefinendo in tal modo il concetto di responsabilità e consapevolezza del reo. Vittima e reo procedono insieme

in un percorso di responsabilizzazione che, partendo dall’espressione della sofferenza causata dal reato si articola in più momenti comunicativi che liberano emozioni, facilitano la comprensione reciproca, danno significato concreto a tutte le forme di riparazione che perdono, per il fatto stesso di essere concordate, il carattere puramente simbolico e si qualificano come vera e propria risposta al bisogno di giustizia.

Naturalmente compete al giudice valutare la rilevanza che l’attività di mediazione deve assumere nel processo in questione. Questa potrà variare a seconda del singolo caso sfociando nel proscioglimento per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/88) o nell’estinzione del reato per positivo esito della messa alla prova (art. 28 DPR 488/88) o l’applicazione di misure sostitutive.

In ambito civile ed in particolare in quello scolastico e sociale obiettivo della mediazione è abbassare la soglia della conflittualità tra i ragazzi o tra ragazzi e adulti, a seguito delle complesse relazioni determinante dai diversi valori dei contesti di provenienza dei ragazzi non sempre condivisi da tutti. Si mira a ricostruire il dialogo cercando soluzioni concordate e non violente. In tal senso si sviluppa il senso di legalità e si rendono le parti consapevoli dell’importanza del rispetto delle regole e degli altri.

A maggior ragione la mediazione può pertanto offrire occasione per i soggetti coinvolti nel bullismo di ristabilire alcuni equilibri venuti meno nel tempo.

Se il bullo può trovarsi di fronte alla proposta, se non bivio, di dover riconoscere la validità di alcune regole sociali, quali la convivenza ed il rispetto altrui, anche per la vittima può essere occasione non solo di rivedere riconosciuto un danno ingiusto arrecato, ma di riscattare anche la propria persona e ruolo.

Inoltre offre l’occasione per un maggiore coinvolgimento della scuola nella tematica dei possibili interventi.

Negli Stati Uniti, dove già nel 1984 veniva costituita la National Association for Mediation in Education, la mediazione in ambito scolastico ha avuto avvio nel corso degli anni settanta per vedere la realizzazione di alcuni progetti nel 1985 (McCormick, 1985) per poi trovare spazi nel mondo anglosassone.

Se in un primo momento la mediazione è stata voluta per le modalità di composizione dei litigi tra gli studenti e al mantenimento della disciplina.

Gli effetti che ne sono derivati sono però stati a maggior raggio. Maxwell nel 1989 segnalava il successo della mediazione nella crescita dell’autostima e dell’auto-regolazione, in particolare nei ragazzi più grandi, della scuola media.

E’ dimostrato che le tecniche di gestione dei conflitti possono essere insegnate ai bambini più piccoli (Levy, 1989; Johnson, 1992; Lane, Mcwhirter, 1992), e come la mediazione attuata da un gruppo di pari può ridurre la conflittualità fra bande rivali (Burrell, Vogl, 1990) e i confitti su base razziale.

Pertanto oltre ad essere una grande occasione per i fenomeni di bullismo, la mediazione, se inserita in un progetto articolato e specializzato, potrebbe essere una risposta per le problematiche connesse al più recente (per l’Italia) fenomeno delle bande giovanili, dette anche Baby-gang.

3. Baby-gang e diritto.

Il fenomeno delle baby-gang da alcuni anni trova un posto sempre maggiore nelle cronache italiane. Il fenomeno sta assumendo dimensioni sempre più marcate sia da un punto di vista numerico sia in relazione alla frequenza e tipologia di azioni criminali poste in essere dai membri delle suddette.

Il fenomeno delle baby-gang riguarda in modo macroscopico soprattutto le città del centro-nord Italia, essendo al sud da tempo costituita una forma di criminalità minorile organizzata tristemente nota da tempo per le connotazioni tipiche e per la sua filiazione alle realtà di stampo mafioso avente un pieno controllo sul proprio territorio.

Inoltre il minor numero di immigrati nelle regioni meridionali diminuisce fisiologicamente la possibilità di costituzione e sviluppo di bande che nella maggior parte dei casi si compongono di giovani provenienti da paesi diversi.

La nascita del fenomeno delle gang giovanili è di data antica nella società americana ed anglosassone. In particolare nelle metropoli degli Stati Uniti ed Inghilterra così come nei paesi del Sud America.

In Sud America ed in America Centrale il fenomeno delle bande ha raggiunto dimensioni più che significative coinvolgendo migliaia di ragazzi e determinando una situazione di grave emergenza per una situazione di massima violenza e criminalità.

Alcuni paesi del centro America hanno disposto alcune previsioni legislative che hanno per oggetto il trattamento e la disciplina applicabile in merito proprio alle baby-gang, sebbene nel concreto si tratti di leggi molto dure ed intransigenti che poco tengono conto dell’aspetto di

recupero e reinserimento dando al contrario ampio spazio all’aspetto prettamente punitivo e contenitivo. Al riguardo si parla di leggi ‘antibanda’.

Honduras, Guatemala ed El Salvador infatti applicano misure difensive contro le bande senza però offrire opportunità alternative e di reinserimento limitandosi spesso a giustificare il proprio agire additando i membri dei detti gruppi quali responsabili della maggior parte di omicidi e reati di violenza più gravi[7].

Non a caso, infatti, le prime bande in senso proprio che si sono formate, ad esempio nella realtà genovese, sono composte prevalentemente di minori provenienti da paesi sudamericani. Ovviamente non vi è solo una ragione culturale alla base di tale evento. La scelta e la necessita di molti adolescenti di legarsi a un gruppo entro cui trovare una propria identità e la creazione di rapporti interpersonali, nasce da una situazione di profonda solitudine, poiché le famiglie sono solitamente inesistenti o poco presenti, spesso in seguito a necessità lavorative delle madri, che per molti sono l’unico riferimento reale familiare. Inoltre si può sottolineare la difficoltà di molti a stabilire rapporti di amicizia stabili con coetanei italiani soprattutto in alcune aree cittadine. Come noto le bande giovanili si contraddistinguono con elementi esteriori ormai definiti: un nome proprio ed identificativo della banda, sono legate ad una particolare territorio urbano, e si caratterizzano per look e sembianze particolari che accomunano e distinguono i propri membri quali abbigliamento, simboli accessori, ad esempio particolari medaglie o fasce o cappelli o berretti, così come tatuaggi.

Il rapporto tra i membri si definisce secondo regole non scritte forti, come il legame della ’fratellanza’ e l’obbligo di osservare il patto con il gruppo.

L’entrata nel gruppo è formalizzata spesso con un rito di iniziazione a volte diversificato per maschi e ragazze. Problema principale è che ormai non si tratta solo di una identità di gruppo o di appartenenza, ma sta assumendo in molte città una connotazione di rilevanza penale poiché i membri sono sempre più coinvolti in ‘circuiti criminali’ o in comportamenti penalmente rilevanti.

In particolare, come emerge dalla cronaca, i reati che più spesso ricorrono sono furto, rapina, rapina a mano armata, aggressione, rissa, porto abusi di armi, traffico illegali di stupefacenti. Inoltre è da evidenziare come alcuni tra i membri hanno ormai raggiunto la maggiore età e si trovano sempre in più in contatto con realtà criminali più organizzate.

Anche a livello governativo sta emergendo la necessità di prendere in considerazione il fenomeno che si profila senza dubbio complesso e di non solo rilevanza penale.

La Commissione parlamentare per l'infanzia nella risoluzione 7-00879 Cavanna Scirea: ‘Forme di violenza di gruppo da parte dei minori’ (baby-gang) riconosce, a seguito dell'indagine conoscitiva sull'attuazione della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo in materia di

forme di violenza di gruppo da parte dei minori, come “preso atto che il fenomeno può considerarsi riferibile a ragazzi appartenenti a tutti i ceti sociali, sia pure con alcune differenze tra le varie realtà geografiche del territorio e considerato tuttavia che il fenomeno non è ancora così diffuso in Italia come in alcune grandi metropoli americane o del nord Europa, né organizzato ad esempio "per etnie" o come una vera e propria struttura criminale, con una progettualità specifica e predefinita, né il più delle volte sembra esservi la consapevolezza di

delinquere; nella convinzione che il fenomeno non debba essere enfatizzato, ma nemmeno sottovalutato, visto che allo stato attuale molto può essere ancora realizzato in termini di prevenzione e quindi di recupero delle devianze, ma al tempo stesso è necessario fornire risposte concrete alle infrazioni commesse dai ragazzi, che non possono considerarsi semplicemente "bravate"; considerato che allo stato attuale il fenomeno appare riconducibile, a grandi linee, ad una sorta di disimpegno morale che esiste nella società, negli adulti in particolare e di conseguenza nei minori, che non hanno più forti riferimenti educativi

e culturali soprattutto a causa della frammentazione delle esperienze educative, mentre una logica di possesso di oggetti viene ad essere prioritaria rispetto al "possesso di valori"; considerato altresì che i riferimenti di base per il fanciullo e per l'adolescente sono costituiti dalla famiglia e dalla scuola” impegna il governo italiano in iniziative volte “a promuovere e valorizzare, nell'ambito del programma quinquennale di progressiva attuazione della riforma sui cicli scolastici, e nel rispetto delle norme sull’autonomia scolastica, di regola il tempo

pieno per quanto concerne la scuola di base; a favorire nelle scuole, anche mediante specifici finanziamenti, attività espressive, di socializzazione e di aggregazione e, ove possibile, attività sportive; a sostenere la creazione di centri di ascolto nelle scuole, già previsti nei progetti di educazione alla salute; a prevedere, nell'ambito della prossima legge finanziaria il rifinanziamento della legge 19 luglio 1991,n. 216, recante "Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose" con possibilità di prevedere interventi su tutto il territorio nazionale. Una quota dei finanziamenti previsti dalla citata legge dovrebbe in particolare essere destinata a progetti riguardanti i territori maggiormente esposti ai rischi di devianza minorile e di coinvolgimento in attività criminose. Nell’ottica poi di una progressiva chiusura degli istituti penitenziari minorili, si dovrebbe sin d’ora pensare a misure alternative a quelle tradizionali di natura restrittiva, volte a creare luoghi di educazione al lavoro e al vivere civile; a prevedere la creazione, con particolare riferimento alle aree più esposte ai problemi di devianza e di criminalità, di osservatori sulle problematiche dell’infanzia articolati anche a livello provinciale, che costituiscano una rete integrata tra gli operatori sociali (prefettura, ASL, provveditorato agli studi, tribunale dei minori, servizi sociali ecc.)che intervengono sui problemi dell’infanzia, ai fini di un migliore e più efficace coordinamento tra i vari soggetti istituzionali; a prevedere, anche in attuazione dell’ordine del giorno n. 9/4236/158 approvato al Senato in sede di discussione della legge finanziaria per il 2000, l’assunzione dei vincitori del concorso per assistenti sociali, da impegnare nei settori della giustizia minorile e dei servizi sociali sul territorio, che potrebbe rappresentare un primo segnale rispetto ad una maggiore e più attenta presenza sul territorio di strutture a favore dell’infanzia; a prevedere un’organizzazione urbanistica delle città idonea a favorire la realizzazione di spazi liberi dedicati alla socializzazione e all’aggregazione dei giovani; a prevedere la presenza di uno psicologo nelle scuole che, nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della figura dell’insegnante, possa tuttavia essere di ausilio e di sussidio in situazioni di particolare disagio".

Nell’ordinamento italiano, a differenza del Centro America, non esiste previsione giuridica che definisca o ponga una disciplina precisa riguardo le baby-gang o l’appartenenza a queste. Nella giurisprudenza più recente, infatti, non è possibile trovare alcun provvedimento o riferimento né alle bande giovanili, né al bullismo.

Per il nostro ordinamento infatti il soggetto deve porre in essere una azione antigiuridica esteriorizzata, concreta, che andando a violare la normativa vigente viene prevista dalla legge penale come reato e pertanto perseguibile.

Non è ammesso un giudizio sulla persona, sul suo ‘essere’, sino al momento di esteriorizzazione della condotta tramite azioni concrete. Il giudizio in caso contrario andrebbe a contrastare contro i diritti e i principi tutelati dalla Costituzione stessa.

Pertanto oltre agli auspicabili interventi di interesse sociale e di prevenzione della criminalità, i membri delle bande si trovano ad essere giudicati solo in conseguenza del proprio agire ponendo in essere azioni rilevanti penalmente, ovvero reati. Il giudice viene chiamato a valutare la capacità a delinquere del colpevole, tramite la valutazione dei motivi a delinquere e del carattere del reo esclusivamente al fine di definire la gravità del reato ex. Art 133 c.p. Ad avviso della scrivente una degli istituti processuali che possono aver maggior successo nei casi di minori appartenenti alle bande è la messa alla prova.

Art. 28 D.P.R. 448/88, che disciplina la sospensione del processo e messa alla prova, prevede che “il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova disposta a norma del co. 2. Il processo è sospeso per un periodo non superiore ai tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione. Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. Omissis”.

L’art. 27 co. 2 D.L. 272/89 disciplina il progetto di intervento elaborato dai servizi minorili e stabilisce che debba prevedere: le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; gli impegni che il minore assume; modalità di partecipazione al progetto; le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa.

Il giudice deve essere informato sia della attività sia dell’evoluzione del caso, potendone modificare i tempi, prorogando o revocandolo. I servizi sono tenuti a presentare una relazione sul comportamento del minore e sull’evoluzione della sua personalità.

La messa alla prova offre l’occasione per il minore di essere coinvolto tramite il progetto in attività che possono estrapolarlo dal contesto abituale di vita.

Poiché il progetto coinvolge il minore ma anche il mondo che gli sta intorno può essere occasione di presa di coscienza, forse delle proprie possibilità e valenze, forse anche del solo fatto che a certe scelte ed azioni corrispondono certe conseguenze, avviando il minore su un cammino di presa di consapevolezza e maturazione prima escluso.

L'istituto della sospensione del processo con messa alla prova, che configura un'ipotesi di "probation" dell'età evolutiva, è applicabile anche a un giovane che, pur maggiorenne, risulti ancora immerso nel percorso evolutivo post - adolescenziale; deve, invece, escludersi l'applicazione del meccanismo a soggetto, minore all'epoca del fatto e in seguito divenuto maggiorenne, il quale si presenti ormai strutturato e maturo (Tribunale minorenni Catania, 29 marzo 1995). La giurisprudenza ha più volte sottolineato l’importanza della considerazione dello sviluppo della personalità del minore, tanto che pone come presupposto per sospendere il processo e mettere alla prova l'imputato minorenne è la sua imputabilità, tradotta nella serietà degli impegni che egli assume, senza la quale esso andrebbe prosciolto ed il cui accertamento non va dilazionato, ma eseguito con mezzi processuali e con riferimento al tempo del fatto. Oggetto di conoscenza attraverso la messa alla prova non è l'imputabilità del minore al tempo del reato, ma la successiva evoluzione della sua personalità. A maggior ragione la sospensione del processo è pertanto da escludere allorché, oltre alla non imputabilità, emerga la pericolosità sociale del minore (Trib. Min. Bologna, 10 settembre 1992). 






[1] A. C. Moro, Famiglia Oggi, Marzo 2004, n. 3, Ed. S. Paolo.

[2] Varcelloni, Ragazzi, giudici, enti locali, Torino, 1980, pag. 374.

[3] D. Novara in Minorigiustizia, Franco Angeli Ed., n. 2/2000, pag. 12

[4] F. Occhiogrosoo in Minorigiustizia, Franco Angeli Ed., n. 2/2000, pag. 9 e ss.

[5] D. Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti Ed., Firenze, 1996, pag. 12.

[6] Dan Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti Ed., Firenze, 1996, pag. 108


[7] Al riguardo da segnalare la denuncia emersa dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani riunitasi a Washington nel marzo 2004 a seguito dell’analisi delle normative e dai provvedimenti applicati di cui sopra, che denuncia come non sia rispettato il principio generale dell’innocenza dell’imputato fino a prova contraria, proprio del sistema penale dei paesi d’oltre oceano dove si applica il sistema di common law, e soprattutto come non si osservi il principio della prova poiché i minori appartenenti a tali bande vengono spesso giudicati e condannati solo in ragione del loro appartenere ad una baby-gang.


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