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mercoledì 28 dicembre 2016

La Rete, le Tecnologie e l'Apprendimento. Linee guida per una indagine conoscitiva.


Il rapporto tra le tecnologie, le forme di apprendimento e le modalità di organizzazione delle conoscenza, la riconfigurazione e il potenziamento degli ambienti di apprendimento, gli strumenti per stimolare la progettualità degli studenti, rappresentano l'oggetto della presente indagine che si rivolge a quanti, operando nei settori dell’educazione e della formazione, sono interessati a una riflessione profonda sulla relazione tra conoscenza, azione e tecnologie. 
Queste relazioni modificano la concezione del mondo e gli artefatti tecnologici si collocano in modo “ambiguo” tra la persona e l’ambiente; in alcuni casi sono esterne alla persona, in altri sono quasi parte della persona, come a formare un corpo esteso.
La didattica e le tecnologie sono legate a doppio filo. Le tecnologie dell’educazione non sono un settore specialistico, ma un filo rosso che attraversa la didattica stessa. E questo da differenti prospettive. Le tecnologie e i media modificano modalità operative e culturali della società; influiscono sulle concettualizzazioni e sugli stili di studio e di conoscenza di studenti e adulti. 
I processi di mediazione nella didattica prendono forma grazie agli artefatti tecnologici che a un tempo strutturano e sono strutturati dai processi didattici.
Le nuove tecnologie modificano e rivoluzionano la relazione tra formale informale.
Partendo da tali presupposti, la nostra indagine conoscitiva intende indagare vari versanti.
Il primo è quello del legame tra media, linguaggi, conoscenza e didattica. 
La ricerca dovrà esplorare, con un approccio sia teorico, sia sperimentale, come la presenza dei media intervenga sulle strutture del pensiero e come le pratiche didattiche interagiscano con i dispositivi sottesi, analizzando il legame con la professionalità docente, da un lato, e con nuove modalità di apprendimento dall'altro.
Il secondo versante è relativo al ruolo degli artefatti tecnologici nella mediazione didattica.
Analizzerà l’impatto delle Tecnologie dell’Educazione nella progettazione, nell'insegnamento, nella documentazione e nella pratiche organizzative della scuola.
Lo spettro è molto ampio e non limitato alle nuove tecnologie; ampio spazio avranno, comunque, l’e-learning, il digitale in classe, il web 2.0, l'I.A.
Il terzo versante intende indagare l’ambito tradizionalmente indicato con il termine Media Education.
Esso riguarda l’integrazione dei media nel curricolo nella duplice dimensione dell’analisi critica e della produzione creativa e si allarga a comprendere i temi della cittadinanza digitale, dell’etica dei media, del consumo responsabile, nonché la declinazione del rapporto tra i media e il processo educativo/formativo nell'extra-scuola, nella prevenzione, nel lavoro sociale, nelle organizzazioni.
Per l’esplorazione dei tre versanti si darà voce non solo ad autori italiani, ma anche alcune significative produzioni della pubblicistica internazionale. 
Inoltre, la ricerca sarà orientata all'esplorazione dei territori di confine tra differenti discipline. Non solo, quindi, la pedagogia e la didattica, ma anche il mondo delle neuroscienze, delle scienze cognitive e dell’ingegneria dell’informazione.

La rivoluzione digitale ha contribuito a trasformare il processo di insegnamento-apprendimento che, dalla classica trasmissione di conoscenze 'da uno a molti', è diventato uno scambio 'da molti a molti'.
La nascita di un’economia basata sulla conoscenza (Knowledge Society) e sull'apprendimento permanente (life long learning) ha dato vita ad un individuo libero di imparare ad autogestire la propria formazione in tutti gli ambiti del formale, non formale e informale.
Per lungo tempo la riproduzione della conoscenza è avvenuta tramite il processo passivo di trasmissione delle informazioni dal docente all'allievo, con il rischio che l’alterazione di tale rapporto potesse procurare un blocco e quindi una perdita di saperi. L’informazione può essere riprodotta ma la conoscenza, per essere interiorizzata, necessita di una mobilitazione cognitiva che coinvolga il soggetto.
La rivoluzione digitale ha cambiato radicalmente il processo di scambio delle informazioni e delle conoscenze. A. Calvani (1999) ha mostrato come la Rete e il computer amplificatore della comunicazione uomo-macchina abbiano contribuito allo sviluppo dei processi di collaborazione e cooperazione. Nel nuovo ʹambiente di rete e in Reteʹ troviamo comunicazioni orizzontali, una spinta crescente verso l’autoapprendimento e un incremento di forme ibride di apprendimento e lavoro.
Il concetto di rete comprende un ampio significato che si ricollega a quanto studiato dalla Social Network Analysis che vede la società come una «rete di relazioni» più o meno estese. Tale metodologia studia il modo in cui ogni attore sociale si relaziona con gli altri, ritenendo che questa interazione influenzi il comportamento di tutte le parti coinvolte.
Lo sviluppo delle Information and Communication Technologies e del Web 2.0 ha creato una versione avanzata delle reti sociali permettendo «una più efficace comunicazione e collaborazione sociale capace di generare fiducia anche all’interno di relazioni a legami deboli e soprattutto capace di creare una nuova conoscenza e innovazione» (Provasi, 2003).
M. Granovetter (1973) ha sostenuto la «forza dei legami deboli» - presenti nella Rete - data dalla combinazione di tempo, emozioni, fiducia e scambio di servizi. Egli ha mostrato la loro utilità nell’offrire maggiore accesso a informazioni e risorse esterne rispetto a quelle reperibili in una cerchia sociale fisicamente ristretta. Sebbene i legami deboli non offrano lo stesso supporto emotivo dei “legami forti” (amici, familiari, colleghi di lavoro) possono ampliare le relazioni e creare maggiori opportunità.
G. Trentin (2004) ha invitato a superare il concetto di Rete intesa come semplice strumento di trasmissione dei materiali didattici lasciando spazio ad una nuovo modello interpretativo: la Rete vista come «luogo dove dar vita a un processo di insegnamento-apprendimento connotato da un elevato livello di interattività fra tutti gli attori coinvolti». Egli sostiene l’uso educativo delle reti mediante la Computer Mediated Communication. Con ciò propone di passare da una «formazione e-learning» (realizzata in aule virtuali dove si sviluppa lo studio individuale e l’interazione a distanza), traslata poi in «formazione blended» (modalità di erogazione della didattica che prevede il supporto di una piattaforma tecnologica alla didattica tenuta in presenza), ad una «formazione mutuata» (processo di apprendimento collaborativo che si basa sulla condivisione di esperienze e conoscenze e sull’aiuto reciproco) con il rinforzo delle tecnologie di Rete.
In tal caso, l’apprendimento mutuato sarebbe composto da tre fasi peer learning:
- socializzazione del problema: si chiede aiuto ad altri per risolvere un problema;
- socializzazione delle migliori pratiche: se si ottiene un consiglio si apprende qualcosa di nuovo che entrerà a far parte del proprio bagaglio culturale;
- collaborazione nel problem solving: se nessuno ha un’idea su come risolvere il problema la si può cercare insieme in Rete.
Lo scenario delineato rientra nell’ampia visione di una ʹpedagogia di reteʹ che vede le potenzialità di un ʹarricchimento digitale integratoʹ di tempi e spazi dell’apprendimento in cui si incontra una rete di persone.
Riferimenti bibliografici
Calvani, A., Rotta, M. (1999), Comunicazione e apprendimento in Internet. Didattica costruttivistica in rete, Trento, Erickson.
Granovetter, M. (1973), The strength of weak ties. In: American Journal of Sociology, Vol 78, N. 6, pp. 1360-1380.
Provasi, R. (2003), Il sistema evoluto delle reti d'impresa: le reti oloniche, Working Paper elaborato nell'ambito del Dottorato di Ricerca in Economia Aziendale, Università di Pavia.
Trentin, G. (2004), Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze. Ruolo, dinamiche e tecnologie delle comunità professionali online, Milano, Franco Angeli.

venerdì 9 dicembre 2016

Supporto teorico pratico per la preparazione al concorso TFA specializzazione sostegno. Creativita’ e pensiero divergente.

Il pensiero divergente e la creatività

di Filippo Carli
Come ci approcciamo di solito alla risoluzione di un qualsiasi tipo di problema? Quali sono le strategie che spesso utilizziamo senza nemmeno accorgercene? E qual’è il ruolo della creatività?
Esistono molti modi di pensare differenti fra loro, ognuno con qualità e limiti diversi. Normalmente li usiamo congiuntamente, senza un vero confine fra l’uno e l’altro, in un incessante riflettere per arrivare al traguardo atteso. Molte volte capita che una precisa strategia si riveli vincente per la risoluzione di un preciso problema rispetto alle altre. Altre volte dobbiamo invece utilizzarle in parallelo creando collegamenti fra esse e rivedendo più volte il nostro punto di vista.
Può quindi essere importante cercare di capire queste strategie e trovare nuovi percorsi critici per analizzare le nostre idee, in un mondo dove le idee portano a giudicare il prossimo e, molte volte, a non cogliere un quadro più complesso.
Per riuscire a risolvere un problema logico la nostra mente utilizza molte strategie ben diverse fra loro. Una di queste è il “pensiero per analogie” che consiste nel cercare nell’esperienza passata degli elementi che possano essere trasferiti al caso presente applicando conoscenze relative a una situazione nota a una situazione non nota. Un’altra strategia frequentemente utilizzata è il “ragionamento induttivo” che consiste nella formazione di concetti, dove varie esperienze permettono di ricavare un principio generale che ci possa servire per il caso presente (dal caso particolare ricaviamo una conclusione generale). Altra strategia, diametralmente opposta, è il “ragionamento deduttivo” dove da un principio generale si può compiere il percorso inverso dell’induzione e ricavare conclusioni particolari. Nelle situazioni sinora analizzate però esiste sempre uno strato iniziale che deve essere trasformato in un ben definito stato finale.
Spesso capita però che non si abbia una precisa idea dell’obiettivo da raggiungere, dove il punto di arrivo non è già dato ma deve essere trovato o inventato. In questi casi la “creatività”, definita come un particolare modo di pensare, gioca un ruolo predominante, creando una rottura con i modelli esistenti e introducendo qualcosa di nuovo. In questo caso il pensiero diventa creativo.
Uno dei modi di intendere il pensiero creativo è quello chiamato “pensiero divergente” (Guilford, 1967), il quale è contrapposto al “pensiero convergente” che viene attivato nelle situazioni che permettono un’unica risposta pertinente, cioè esso rimane circoscritto entro i limiti della situazione, segue le linee interne alla situazione stessa rispettando o utilizzando regole già definite e codificate e produce un’unica risposta accettabile a un problema.
Il “pensiero divergente”, invece, è attivato nelle situazioni che permettono più risposte corrette, più vie di uscita o di sviluppo. Esso pertanto va al di là di ciò che è contenuto nella situazione di partenza, ricerca in varie direzioni e produce qualcosa di nuovo. L’elemento caratterizzante di questo processo è quindi la produzione di nuove idee.

Secondo Guilford, i principali aspetti che contraddistinguono il pensiero divergente sono:
・    La Fluidità, intesa come capacità di riprodurre tante idee senza riferimento alla loro qualità o adeguatezza.
・    La Flessibilità, che indica la capacità di passare da una successione o catena di idee all’altra.
・    L’Originalità, che consiste nella capacità di trovare idee insolite.
・    L’Elaborazione, intesa come capacità di percorrere sino in fondo la linea di pensiero intrapresa.
・    La Valutazione, definita come capacità di selezionare, tra le varie idee prodotte, quelle più pertinenti agli scopi.

Talvolta la creatività del pensiero sembra non dipendere dalla combinazione dei singoli elementi, ma da un cambiamento nella visione complessiva della situazione. Questo processo, che permette di individuare qualcosa di nuovo da una situazione di partenza è stato definito “pensiero produttivo”, contrapposto al “pensiero riproduttivo”, dove il soggetto tende a riprodurre meccanicamente procedimenti precedentemente appresi (dalla teoria della Gestalt). Il pensiero produttivo quindi non è contraddistinto né dal procedere per tentativi né dalla riattivazione automatica di una risposta consolidata, ma dall’emissione istantanea di una nuova risposta a seguito di una intuizione. In pratica il soggetto rielabora la situazione sotto un differente punto di vista e diviene immediatamente evidente qualche suo nuovo aspetto che prima non aveva avvertito o considerato. Il pensiero produttivo permette quindi una “ristrutturazione” del problema. Anche in questo caso la componente creativa, ovvero la capacità di andare oltre gli “schemi”, gioca un ruolo decisivo, permettendoci di superare la tendenza a impiegare i vari elementi del problema secondo il loro uso comune e riconcettualizzando la loro funzione, utilizzandoli in maniera diversa o insolita.
C’è da sottolineare però che il pensiero divergente non è superiore a quello convergente, anche perché spesso il secondo si adatta meglio alla risoluzione di vari problemi particolari. La cosa importante è considerare i due tipi di pensiero complementari, dove ognuno ha caratteristiche fondamentali per la risoluzione di determinati problemi.
Spesso e per molto tempo però il pensiero convergente è stato il principale strumento insegnato e utilizzato nelle scuole, mentre la sua controparte divergente e lo sviluppo della creatività nei ragazzi sono stati quasi del tutto trascurati.
E’ quindi fondamentale dare rilievo e incentivare lo sviluppo di entrambi i tipi di ragionamento senza preferire uno a scapito dell’altro.
In ultima analisi, coltivare la creatività e il pensiero divergente significa soprattutto dare meno spazio a scelte automatiche e meccaniche ed affinare lo spirito critico grazie al quale poter analizzare e valutare tutte le soluzioni alternative di un dato problema o della realtà che ci circonda.
Che cos'è la creatività?

La creatività è un concetto familiare eppure stranamente elusivo. Potremmo riscontrare un certo disaccordo sulla possibilità di essere creativi nelle scienze come nelle arti, in casa come nel laboratorio del vasaio, nell'allevare bambini come nello scrivere libri. Ulteriore disaccordo sorgerebbe probabilmente se iniziassimo a discutere sul  se effettiva­mente la creatività possa essere interamente appresa o se sia un dono prezioso con il quale nasciamo (o meno, a seconda dei casi).

Il pensiero divergente


Uno degli approcci di problema consiste nel vedere la creatività come un modo particolare di pensare, un modo di pensare che implica originalità e fluidità, che rompe con i modelli esistenti introducendo qualcosa di nuovo.
Dal lavoro giovanile di J.P.Guilford il termine pensiero divergente  è quello più strettamente connesso all'atto creativo. Guilford, asseriva che il pensiero divergente è la capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni per un dato problema, in particolare per un problema che non preveda un 'unica risposta corretta. È facile rendersi conto che una simile capacità ha probabilmente un ruolo nell'atto creativo, poichè l'artista ha spesso bisogno di esplorare una serie di possibili modi di dipingere un quadro, di portare a termine un romanzo o di scrivere una poesia prima di decidersi alla fine per quello che sembra essere il migliore. Ovviamente ci aspettiamo che un atto creativo riporti anche l'impronta dell'originalità, ma anche in questo caso il pensiero divergente avrà un suo ruolo, poiché più ampia sarà la gamma di possibilità che siamo in grado di produrre, più alta sarà la probabilità che una di esse dia prova di originalità.

Creatività e intelligenza


Guilford si riferiva anche a ciò che lui chiamava pensiero convergente. Nel pensiero convergente si dice che gli individui convergono, invece che discostarsene, sull'unica risposta accettabile a un problema e producono efficacemente la soluzione Talvolta si afferma che i test di intelligenza si concentrano solamente sul pensiero convergente, dato che a ogni item corrisponde un'unica risposta corretta accettabile, e che il pensiero divergente può essere veramente dimostrato solo con test cosiddetti a finale aperto. Questo è probabilmente vero ed è sempre un esercizio interessante chiedere ai bambini di guardare alcuni item di un test di intelligenza (in particolare quelli del tipo "Metti in evidenza l'elemento estraneo”) e vedere se per ognuno riescono a trovare spiegazioni a più di una soluzione accettabile. Nel farlo chiediamo loro di pensare in modo divergente piuttosto che convergente e i risultati potrebbero essere in un certo senso sorprendenti per chi
costruisce test di intelligenza.
Tuttavia non sto sostenendo che il pensiero divergente sia comunque superiore a quello convergente, o che sbagliamo nel dedicare a quest'ultimo così tanto tempo nelle scuole. Spesso il pensiero convergente si adatta meglio a un problema particolare e inizialmente dovremmo quindi considerare il pensiero divergente come complementare a quello convergente, invece di istituire fra i due tipi di pensiero una sorta di competizione. Ciò che Guilford e altri tentarono di dimostrare è che ,dando rilievo al pensiero convergente, siamo stati inclini a trascurare completamente il pensiero divergente e di conseguenza non abbiamo fatto abbastanza per l’insegnamento (o lo sviluppo ) della creatività nelle scuole.




La creatività e la scuola


Lavorando sulla scia del trasporto entusiastico iniziale per il lavoro di Guilford, Hudson (1966) ha rilevato che in prima media coloro che hanno un alto grado di divergenza tendono a specializzarsi nelle arti e quelli con un alto grado di convergenza nelle materie scientifiche. Ciò può essere dovuto principalmente all'incoraggiamento e alle opportunità piutto­sto che a qualcosa di insito in una delle due discipline scolastiche in questione o negli alunni stessi. Pare che, almeno in certe scuole, agli studenti di materie scientifiche sia permesso agire meno spesso in modo divergente rispetto agli studenti di arte, perché le discipline che essi studiano sono ritenute essere meno soggettive (forse meno «d'ispirazione») di quelle seguite nei licei artistici e nelle accademie delle belle arti. Quando agli studenti di scienze vengono forniti esempi di ciò che si intende con pensiero divergente, i loro punteggi nei test sul pensiero divergente mostrano un miglioramento immediato. Presumendo che tali test siano una buona misura della creatività, questo indicherebbe che gli studenti di materie scientifiche non mancano di capacità creativa ma semplicemente che necessitano dell'incentivo per estrinsecarla.


Incoraggiare il pensiero divergente


Il primo punto che gli insegnanti devono quindi tenere a mente è che, quale che sia la loro materia, devono essere consci delle opportunità di incoraggiare il pensiero divergente negli studenti e sfruttarle quando si presentano. Bruner sostiene che nell'ambito dell'educazione tendiamo a ricompensare solo le risposte «giuste» e a penalizzare quelle «sbagliate». Questo rende i bambini riluttanti ad azzardare soluzioni nuove o originali nella risoluzione di un problema, dato che le probabilità di sbagliare in questo caso diventano inevitabilmente maggiori. In altre parole essi non vogliono correre rischi. Tuttavia il salto immaginativo, la produzione di una risposta diversa da quella convenzio­nale, la prontezza ad assumersi quelli che potrebbero essere chiamati i rischi conoscitivi sono inscindibili dallo sforzo creativo. L'insegnante dovrebbe essere preparato ad agire in un'atmosfera in cui tale sforzo sia incoraggiato e ricompen­sato piuttosto che in un clima educativo dove vengano approvate soltanto le soluzioni caute e convergenti.
Questo non significa certo che non teniamo in considerazione l'accuratezza o la precisione. Si ricordi che l'atto creativo implica la verifica/valutazione. La soluzione deve essere verificata per vedere se funzionerà; se fallisce deve essere scartata, anche se il bambino può nondimeno essere lodato per lo sforzo immaginativo compiuto. E anche questo fallimento può essere apportatore di nuove idee che possono poi essere verificate ed eventualmente condurre alla soluzione desiderata.
Secondo Bruner invece il pensiero creativo è olistico (produce cioè risposte che hanno un'ampiezza superiore alla somma delle loro parti), mentre il pensiero razionale e convergente è algoritmico (produce cioè risposte che sono inequivocabilmente esse stesse). Entrambi i tipi di pensiero hanno un loro ruolo fondamentale, ma dovrebbero essere utilizzati per completarsi e sostenersi a vicenda e non venire in un certo senso considerati come reciprocamente incompatibili.
Prima di affermare con troppo entusiasmo di aver già compreso il valore per la classe di entrambe le forme di pensiero e che mai penalizzeremmo il bambino per un tentativo olistico, dovremmo ricordarci che la scoperta di Getzels e Jackson, secondo cui coloro che hanno un alto grado di divergenza sarebbero meno benvoluti dagli insegnanti rispetto a quelli con un alto grado di convergenza, può ancora essere ritenuta valida. Le scuole hanno le loro regole e regolamenti, i loro modelli di procedura e di condotta e spesso il bambino conformista riesce a convivervi in maniera più serena di quello non conformista e molto fantasioso. Inoltre le idee divergenti possono essere spesso originali e di valore, ma possono anche essere stravaganti e sciocche, inducendo l'insegnante a sospettare che il bambino stia soltanto "facendo il furbo”. Sfortunatamente (o fortunatamente) la creatività è una cosa imprevedibile e noi non possiamo pretendere che si estrinsechi sempre in una forma adatta alle circostanze del momento. Studiando le risposte dei bambini e facendo in particolare attenzione a dove conducono effettivamente le idee che inizialmente sembrano sciocche, l'insegnante riesce in breve a riconoscere quando i bambini stanno tentando di usare la loro immagina­zione e quando stanno semplicemente tentando di sorprendere. Omettendo una simile osservazione l'insegnante corre il rischio di reprimere le idee buone assieme a quelle non proprio buone e di dare alla classe l'impressione che l'originalità semplicemente non sia benvenuta quando si manifesta.
tratto da  http://www.amso.it/h/pensierodivergente.htm 

Supporto teorico pratico per la preparazione al concorso TFA specializzazione sostegno. TEMATICHE E COMPETENZE OGGETTO DI VERIFICA

Prendiamo un giornale e facciamone una palestra di scrittura. Perché per imparare a scrivere bene bisogna prima capire come funziona un testo efficace.
Ci sono molti libri che spiegano come bisognerebbe scrivere in teoria. Leggere, scrivere argomentare. Prove ragionate di scrittura di Luca Serianni, invece, punta tutto sulla pratica. Per riuscirci, bisogna innanzi tutto partire da un modello (come i diversi tipi di testo che troveremo in queste pagine: dall’articolo di cronaca a quello di divulgazione scientifica). Poi scomporre quel modello nelle sue componenti, analizzandolo movimento per movimento (come si fa qui nel commento linguistico che segue ogni testo). E poi esercitarsi: fare tanti esercizi pensati per sviluppare ognuna delle abilità necessarie a quel risultato. Esercizi per rafforzare il nostro vocabolario, imparando a scegliere la parola giusta per completare una frase (anche ricostruendola a partire dalla definizione di un dizionario). Esercizi per allenare la nostra capacità di collegare le frasi con i giusti nessi logici, andando a cercare l’intruso, l’elemento sbagliato che altera il senso del testo. Il tutto senza trascurare il divertimento: perché scrivere è una cosa seria, non seriosa.
Saper leggere, saper scrivere
Secondo Graziadio Isaia Ascoli lo «scrivere correttamente» è «una cosa che sa di miracolo, una cosa da perigliarvi la vita». Senza drammatizzare (l’incolumità personale è comunque fuori discussione), è difficile non convenire col grande linguista goriziano. Scrivere bene significa anche leggere bene, non solo comprendendo parole e frasi, ma cogliendo le sfumature e le implicazioni del discorso e, eventualmente, l’intento persuasivo dell’autore. In ogni caso, non è solo una questione per addetti ai lavori. Qualche tempo fa, nel «Corriere della Sera», Paolo Di Stefano – deplorando i politici, che si lasciano andare troppo corrivamente all’incontrollato improperio – osservava: «la capacità di argomentare con pensieri lucidi veicolati da frasi sintatticamente evolute è una parte essenziale del loro dovere pubblico».
Sottoscrivo e rilancio, in due direzioni. Quanto al mezzo, quel che vale per il parlato (e per il parlato proiettato sulla rete: Facebook, Twitter ecc.) vale a maggior ragione per lo scritto. Quanto ai destinatari, lo stesso auspicio andrebbe esteso a molte altre categorie professionali: dai magistrati agli insegnanti, dai medici agli economisti. E c’è da fare appello anche a un dovere privato, individuale, che può riguardare ciascuno di noi: almeno se vogliamo imparare a difendere le nostre ragioni, rendendole ben strutturate e chiare prima di tutto a noi stessi.
Si può costruire, volendo, una cornice teorica, partendo dalla norma e illustrandola con adeguate esemplificazioni: come possono essere distinti i testi in base alla loro tipologia? che differenza c’è tra coesivi e connettivi? quando va usato il punto e virgola? È un percorso che io stesso ho compiuto altrove. Ma in questo volume ho voluto ribaltare la prospettiva, ponendo in primo piano testi “ben scritti”, cioè pienamente funzionali allo scopo per il quale sono stati pensati. Per fortuna, a differenza di quel che normalmente si dice (l’italiano è allo sfascio ecc.), è abbastanza agevole trovare esempi utili: chiunque potrà contrapporre uno qualsiasi dei testi qui antologizzati ai testi “scritti male”, ben noti agli insegnanti ma non solo a loro. Pensiamo ai verbali di tante riunioni condominiali in cui il condomino verbalizzante mette insieme un po’ di linguaggio burocratico, un po’ di formule giuridiche malamente orecchiate, il tutto cucinato con una sintassi incerta e con una punteggiatura casuale: un eventuale contenzioso potrebbe far leva anche sull’oscurità e l’imprecisione del dettato. E infatti al polo opposto del nostro condomino, si collocano i grandi giuristi, che maneggiano la lingua con straordinaria perizia ed efficacia.
A differenza di molti miei colleghi (si veda da ultimo Massimo Arcangeli, in un volume del 2012), sono convinto che i giornali siano mediamente scritti bene; e ottimamente nelle parti costitutive, come l’editoriale e i commenti degli opinionisti. Diversi dei quali, oltretutto, sono professori a cui l’abitudine alla scrittura per un pubblico generalista ha tolto quell’accademismo che Indro Montanelli rimproverava, non a torto, agli storici di professione, giudicando le loro opere illeggibili. Scrivere bene un articolo o un saggio significa fare emergere una tesi di fondo, intorno alla quale sono selezionati gli argomenti pertinenti; dominare perfettamente sintassi e testualità; usare un lessico puntuale e spesso non banale. La punteggiatura è funzionale e non rinuncia affatto a segni che vengono dati troppo facilmente come fuori corso (il punto e virgola ritorna, limitandosi ai giornali, nei testi nni 2, 5, 6, 7; e potremmo aggiungere anche 17.1.1 e 17.2).
Michele Loporcaro, in un brillante pamphlet del 2005, ha denunciato quello che giudica lo scadente livello dei giornali italiani rispetto a quelli anglosassoni, svizzeri o tedeschi: non solo sulla base di una lingua raffazzonata, ma soprattutto per la maliziosa confusione tra notizia e racconto, funzionale a una distorsione che fa appello all’emotività del lettore sacrificando il suo diritto a ricevere una notizia nella sua referenzialità. L’analisi, oltre che civilmente appassionata, è circostanziata e impone un commento. Quanto al primo punto, lo «sciocchezzaio giornalistico», si tratta di valorizzare non indiscriminatamente qualsiasi articolo appaia in un giornale, ma solo quelli – comunque numerosi – che sono linguisticamente impeccabili; quanto al rischio della manipolazione, si può osservare che proprio l’abitudine all’analisi linguistica funge da salutare contravveleno, permettendo di cogliere le intenzioni di chi scrive, e di prenderne eventualmente le distanze (come esempi di testi ideologicamente orientati si vedano i nni 2 e 5, con i relativi commenti; ma sono testi che restano, a mio parere, esempi di ottimo giornalismo).
Non occorre essere iscritti all’albo dei giornalisti per maneggiare bene la penna (o i tasti del computer). Tra i brani antologizzati ho incluso anche alcuni excerpta scritti da adolescenti (n° 17: articoli da una rivista a destinazione giovanile, e un “saggio breve” eseguito come compito in classe), per mostrare che la capacità di esprimersi con chiarezza ed efficacia può trovarsi anche in giovanissimi studenti: Spiritus ubi vult, spirat, potremmo dire adattando al nostro discorso la sentenza evangelica (Io 3, 8).
La tipologia testuale fondamentale è quella del testo argomentativo. La varietà dei materiali proposti fa sì che non sia applicabile a tutti una definizione, diciamo così, “stretta” come quella di Marco Santambrogio (che definisce come elemento costitutivo di un saggio «un complesso di affermazioni vere, interessanti e giustificatemediante prove»: corsivo mio) e che risulti più pertinente ai nostri fini quella di Rossi e Ruggiano: «i testi argomentativi sono usati per convincere (senza comandare) ad accettare ed eventualmente fare propria un’opinione o una posizione». Non si può dire che gli articoli di Cicala e Serra (nni 2 e 6) si fondino su «prove»; ma non c’è dubbio che esprimano idee molto precise e che ricorrano a procedure logiche, oltre che narrativamente efficaci, per far sì che il lettore condivida i rispettivi punti di vista. Del resto, partizioni del genere servono solo come inquadramento di massima e comportano un certo grado di elasticità: «i testi reali – cito ancora Rossi e Ruggiano – contengono aspetti propri di più categorie, delineandosi come testi misti».
L’intento di questo libro è insieme umile e ambizioso: illustrare, commentando un certo numero di brani contemporanei, come funziona un testo ben costruito; che cosa se ne può ricavare attraverso una lettura attenta a cogliere il rapporto tra contenuti, espliciti o impliciti, ed espressione linguistica; quali esercizi e operazioni di smontaggio possono servire, entrando nel laboratorio di uno scrivente esperto, perché chi esperto non è migliori la sua abilità di scrittura. Il volume è stato pensato in particolare per studenti della secondaria superiore – o meglio per i loro insegnanti, ai quali vorrebbe fornire suggerimenti operativi – ma anche per gli studenti universitari impegnati nella pratica della scrittura e per tutti gli adulti che sentono il bisogno di migliorare la propria capacità di interpretare e produrre testi scritti.
Sono due gli aspetti sui quali ritengo si debba insistere: 1. la costruzione di un’argomentazione corretta ed efficace attraverso la selezione dei dati da presentare, l’uso di strumenti linguistici pertinenti (connettivi, interpunzione) ed eventualmente, soprattutto se ci si rivolge a un pubblico largo come avviene scrivendo in un giornale, di risorse retoriche (come cominciare e come concludere); 2. l’arricchimento del lessico astratto, a partire da quello che si riferisce alla vita associata (non si possono confonderelegislatura e legislazione), sviluppando la capacità di cogliere le implicazioni ironiche che possono annidarsi nell’uso di un sinonimo meno comune (se qualcuno si complimenta per una mia lezione, mi fa piacere; se celebra la mia dissertazione, mi insospettisco). Ma non ci sono solo le parole singole. È importante saper padroneggiare le solidarietà lessicali e le restrizioni semantiche: una questione può essere controversa, se ammette più vie d’uscita o è di ardua soluzione, mentre una domanda sarà difficile,impegnativa o al più ambigua, più che controversa; un individuo o una classe sociale possono essere ricchi abbienti, ma una nazione sarà solo ricca, perché abbiente si dice solo di persone, presenta cioè il tratto semantico [+ umano].

Testi ben scritti

Scrittura tendenzialmente argomentativa, si diceva. Ma la serie dei brani prescelti si chiude con tre articoli di cronaca nera, testi “narrativi” (o, se si vuole, “espositivi”) di contenuto e di struttura fortemente prevedibile, che in questo caso non vogliono rappresentare modelli di scrittura: sono stati scelti soprattutto per fornire agli studenti una palestra per esercizi più elementari (n° 18). In ogni caso, la scrittura di cui ci occuperemo non è quella creativa: tra le varie aree rappresentate nell’antologia mancano proprio la letteratura e la critica letteraria. Mancano per due motivi.
Il primo è legato al carattere tipicamente plurivoco del testo letterario, che dice sempre di più della sua lettera e dice cose diverse ai vari lettori, smentendo un requisito essenziale del testo non creativo: la coerenza testuale. Ciò appare con particolare evidenza nella poesia contemporanea, specie in chi – esemplifico con Umberto Fiori – ricorre a una «lingua comune, tutta prosastica e immune da qualsiasi artificio proprio del poetico» (Andrea Afribo), nella quale la specificità formale del codice espressivo si affida in primo luogo alla violazione dell’orizzonte di attesa del lettore. Un componimento del 1998, Futuro, si apre così: «Com’era lontano il giorno / in cui cose e persone finalmente / sarebbero state vere, / lì, dov’erano vere ogni mattina»: un «binario di paradossali contraddizioni» – osserva ancora Afribo – in cui il lontano è anche vicino («lì») e il condizionale («sarebbero state») coincide col modo della realtà («erano»). Il secondo motivo è legato all’esigenza di preservare la specificità del testo letterario e anche il piacere di leggerlo, senza farlo oggetto di esercizi che ne svilirebbero il significato e lo ridurrebbero a pretesto per esercizi di lingua. Un testo poetico contemporaneo recalcitra persino alla parafrasi, una pratica auspicabile invece per la letteratura italiana classica, e indispensabile per prendere coscienza del significato di base dei versi.
I testi letterari o gravitanti sulla letteratura si prestano poco anche a fornire materiali agli strumenti di valutazione oggi più in voga (e ben rappresentati anche in questo volume): i test a risposta chiusa. In una sfortunata batteria di prove preliminari allestite per i concorrenti del TFA (“Tirocinio Formativo Attivo”: futuri insegnanti) nel 2011 e somministrate ai candidati nel luglio del 2012, molte domande erano formulate in modo errato o discutibile e nell’agosto successivo sono state annullate, cioè considerate corrette per tutti, qualunque fosse stata la risposta. Non sarà un caso che nella classe 50 (Materie letterarie nella secondaria superiore di secondo grado) su 11 domande annullate, ben 5 vertessero sul commento a brani di critica letteraria. Una domanda, la n° 53, proponeva un brano di Giorgio Bàrberi Squarotti sulla poetica pascoliana: oltre alla risposta data come corretta («In Pascoli non c’è una logica che spieghi la scelta di privilegiare certi particolari di una situazione»), dall’elegante e sfaccettata prosa del critico potevano risultare plausibili anche altre due risposte: «P. è un visionario» (pericolosamente contigua alla formulazione accettabile, che sarebbe stata: «P. sembra un visionario») e soprattutto: «La realtà è frutto della fantasia del poeta» (anche qui si lambisce, pur senza coglierne appieno la sostanza, l’effettiva affermazione del critico: «L’ottica pascoliana non ha un centro oggettivo e razionalmente chiaro e coerente su cui fare presa, bensì opera come se non esistesse nulla di definito, di incorniciato, di determinato nel quadro, anzi come se il quadro, come complesso ordinato di oggetti, non esistesse neppure, ed esistesse soltanto la decisione, perfettamente arbitraria e immotivata, di dichiarare l’esistenza di una serie di oggetti, l’uno autonomo rispetto all’altro, e, per questo, enormemente ingrandito fino a occupare l’intero orizzonte della descrizione»).
Niente letteratura, dunque. Il criterio di scelta è stato quello di privilegiare temi che, per quanto talvolta incardinati sulla cronaca – fine di Gheddafi, viaggio di Benedetto XVI a Cuba, elezioni presidenziali in Brasile, crisi dell’ex Jugoslavia – permettessero riflessioni generali di geopolitica (nni 1, 4, 5, 11); toccassero temi di interesse generale, che hanno spesso ricadute a scuola, se non altro come “tracce” di elaborati scritti (il doping nello sport e l’atteggiamento verso il colpevole: n° 6; la biografia poetica di un celebre cantautore: n° 8; la questione meridionale dopo l’Unità: n° 10; la perdita della memoria storica nell’Italia di oggi: n° 12; l’invecchiamento demografico della società italiana: n° 13; un episodio di storia economica e l’insegnamento che se ne può trarre: n° 14); inserissero nell’orizzonte umanistico temi scientifici (fisiologia e psicologia: n° 15; medicina: n° 16) o filosofico-scientifici (la fallibilità della scienza: n° 9). Quanto alle fonti, ho attinto ai grandi quotidiani nazionali e ai loro supplementi (in sette casi); alla saggistica rivolta a un pubblico largo, anche se culturalmente avvertito (in altrettanti, uno dei quali, il n° 14, pubblicato a puntate su «Sette - Corriere della Sera», ma di chiara estrazione accademica); alla divulgazione scientifica (due). Ma non ho rinunciato a rappresentare la scrittura giornalistica nella sua veste più brillante: l’amara ironia di una denuncia sul degrado di Pompei (n° 2), una dotta causerie in difesa delle buone maniere (n° 7), fino alla riflessione personale sull’importanza affettiva del cane (n° 3).
La prova principe per l’italiano scritto è, non da oggi, il tema. Una pratica che ha attirato su di sé una lunga e motivata serie di critiche, da De Amicis a Lombardo Radice ad Augusto Monti. Con la riforma dell’esame di maturità (ribattezzato “esame di Stato”) del 1997, si sono introdotte altre prove: l’«analisi del testo», il «saggio breve», l’«articolo di giornale»; ma non si può dire che, a distanza di qualche anno, il bilancio sia positivo.
L’analisi di un testo letterario, che nel corso degli anni è andata sempre più appiattendosi sul Novecento, è sì la prova che, in paragone con le altre, viene svolta meglio; ma è sistematicamente scelta da una quota minoritaria di studenti, per giunta concentrati in due sottouniversi privilegiati quanto a profitto, secondo tutti gli indicatori: i liceali (68,3% del totale degli studenti che hanno scelto questa prova nell’anno 2008-2009) e le ragazze (63,7%).
Quanto al «saggio breve», sono molte le cose da ripensare. La quantità delle fonti di cui tener conto è sovente sproporzionata rispetto alle capacità di uno studente medio (e alla sua, prevedibile, ansia di cominciare sùbito la stesura del compito, senza impiegare troppo tempo a ragionare sulle consegne): la prova assegnata nel 2007 prevedeva ben dieci brani da leggere, meditare e utilizzare, oltre a un quadro di Chagall; la scelta dei passi sui quali riflettere è spesso dispersiva ed eterogenea e parrebbe riflettere lo sfoggio di competenze degli esperti ministeriali che hanno stilato le prove piuttosto che adeguarsi all’orizzonte culturale dei destinatari; l’abilità che rischia di essere testata, anche nei casi migliori, è la vecchia retorica: date più citazioni, il candidato è tenuto a costruire una linea di discorso che riesca a unificarle, comprovandone e condividendone inevitabilmente gli assunti, senza nessuno spazio effettivo per apporti personali. Va detto, a onor del vero, che l’intento del legislatore non era quello di immaginare una consegna che inserisse in un discorso coerente necessariamente tutti gli spunti dei brani proposti: se ne potevano (se ne sarebbero dovuti) cogliere solo alcuni, integrandoli magari con letture proprie.
Non parliamo dell’«articolo di giornale»: un invito all’improvvisazione – ossia a quanto di più diseducativo ci possa essere –, dal momento che giornalisti non si nasce, ma si diventa, dopo un apprendistato abbastanza impegnativo, per il quale la scuola non ha finora mostrato interesse. La buona rappresentanza di articoli di giornale in questo volume intende, comunque, dare un primo contributo di attenzione a questa tipologia testuale, che potrebbe effettivamente avere positive ricadute scolastiche.
Per l’esame di Stato mi piacerebbe immaginare, invece, più prove simultanee, come avviene per il compito di matematica del liceo scientifico: un tema su un argomento sufficientemente delimitato e vincolato a una lunghezza non eccessiva – per esempio: non più di una-due colonne di foglio protocollo – e volto ad accertare la capacità di mettere insieme un testo coeso e coerente (senza pretendere che sia anche originale!), dimostrando di aver assimilato uno degli argomenti centrali studiati nell’ultimo anno; il riassunto di un testo argomentativo vincolato il più possibile a una estensione data; la verifica della comprensione di un testo saggistico su argomenti estranei allo studio effettivamente svolto (molto adatti gli editoriali di un quotidiano, per esempio), attraverso domande mirate.

Applicazioni

Indipendentemente dalle prove dell’esame di Stato, ritengo che la costruzione della capacità di scrittura debba procedere per gradi: «L’intreccio delle parole, come quello dei pensieri, non si improvvisa, ma è frutto di educazione, soprattutto scolastica» (Daniela Notarbartolo). Nell’insegnamento della lingua madre, e nell’insegnamento in genere, l’iniziativa e la creatività del singolo docente sono irrinunciabili; ma ci si può ispirare utilmente a procedure ampiamente verificate nella glottodidattica, specie per l’insegnamento di una lingua seconda.
Una delle prove più praticate nelle Applicazioni suggerite in questo manuale è il cosiddetto cloze, consistente nella «ricostruzione di un brano tramite il reinserimento di alcune parole precedentemente cancellate secondo vari criteri» (Stefania Nuccorini). La pratica del cloze nasce ad opera di psicologi della Gestalt ed è stata applicata alla lingua dallo statunitense Wilson C. Taylor (1953), con l’intento di misurare la leggibilità dei testi. Successivamente il cloze è stato introdotto nella didattica di una lingua straniera e della stessa lingua madre. In Italia è stato pionieristico l’impegno di Carla Marello, che ne ha verificato l’uso specie nella scuola elementare, mostrandone le più generali implicazioni didattiche. «La somministrazione del cloze – scrive la linguista torinese – può diventare un’occasione per fare lezione di grammatica e di lessico qualora l’insegnante faccia discutere in classe le lacune più interessanti, quelle che hanno ricevuto integrazioni molto diverse e che pochi hanno saputo riempire [...]. Gli studenti dovranno produrre testi orali argomentativi, basati su operazioni che richiedono capacità inferenziali, abilità astrattiva e padronanza del metalinguaggio grammaticale».
cloze più elementari possono vertere, per esempio, sulla morfologia di base (articoli, preposizioni): in una frase come «Dopo ?1’infanzia segnata da lutti, Silone pubblicò nel 1933 Fontamara, ?2 suo primo romanzo» non è difficile ricostruire che gli articoli devono essere indeterminativo in ?1 e determinativo in ?2. Elementari, sì, ma non proprio banali: un’infanzia è richiesto dalla presenza del determinante segnata da lutti; avremmo potuto dire anche l’infanzia, ma in quel caso il determinante, a mo’ di inciso, avrebbe dovuto essere incluso tra due virgole: «dopo l’infanzia, segnata da lutti, Silone ecc.» (e ci sarebbe anche un’altra controindicazione, questa volta semantico-pragmatica: nel 1933 Silone aveva trentatré anni e l’inciso dopo l’infanzia è un’espressione che ci farebbe pensare a chi abbia appena superato questa fase della vita, non a un adulto). Nessun margine di dubbio, invece, nel secondo caso: primocontraddistingue un individuo determinato, e c’è un solo possibile primo romanzo.
A un livello superiore possono entrare in gioco i tipici connettivi argomentativi, propri di un testo appena complesso. Ecco un esempio letterario (da Giovanni Verga): «L’estate poi non c’era neppur bisogno della candela, ? si poteva star sull’uscio, sotto il lampione»: per completare il testo si può scegliere tra a. quando; b. finché; c. giacché; d. mentre; e. però. La seconda proposizione – evidentemente una subordinata, dal momento che le opzioni non prevedono un pur possibile e – motiva l’affermazione precedente: l’illuminazione pubblica consentiva di rinunciare alla candela; serve dunque un connettivo causale (qui giacché) e cadono gli altri quattro, che introducono un rapporto temporale incongruo (a., b., d.), così come l’avversativo però (e.).
cloze più avanzati che verranno proposti in questo libro, e che presuppongono un certo grado di maturità espressiva e anche cognitiva, sono quelli che saggiano il dominio del lessico intellettuale e quindi fanno leva su un sapere linguistico, ma spesso anche culturale. Ecco un possibile esempio, tratto come i due successivi, da una lezione lincea di uno dei massimi giuristi italiani, Natalino Irti (si parla di Alfredo Rocco in quanto teorico del fascismo): «Il Rocco [...] opponeva alla concezione liberale dello Stato, bollata per ? e atomistica, una dottrina unitaria e organica, che innalza lo Stato, e i fini dello Stato, al di sopra della vita dei singoli individui». Per completare il testo si deve scegliere tra a. collettivistica; b. idea­listica; c. individualistica; d. isolazionistica. Il contesto ci guida verso la risposta giusta, c., guardando al secondo termine della coppia che funge da supporto sinonimico (atomistica) e ai termini contrapposti (unitaria e organica). Ma l’efficacia di un test dipende dalla qualità dei distrattori, cioè delle risposte errate. I distrattori non devono essere del tutto implausibili e devono giocare sulla semantica (magari proponendo un antonimo, come in questo caso: collettivistica; è noto che una parola richiama una parola di significato vicino o opposto: “bello” fa scattare nella nostra mente l’associazione con “carino” o con “brutto”, non con “stanco” o “laterale”), e/o sulla parafonia, introducendo parole simili, specie perché formate con lo stesso suffisso, come in questo caso. I distrattori b. e d. implicano un grado di malizia in più. Un liceale medio arrivato all’ultimo anno di corso (solo a loro è evidentemente rivolto un test su temi come questi) sa che Croce è il massimo esponente italiano dell’idealismo e che fu ostile al fascismo: di qui la tentazione diidealistica, un termine non pertinente, ma comunque legato a quel contesto storico-culturale. Quanto a isolazionistica, il distrattore (più insidioso degli altri) fa leva sul fatto che l’individuo, fulcro del pensiero liberale, può essere percepito come “isolato” dagli altri.
Un altro esercizio che ritengo utile è “la ricerca dell’intruso” (per usare una terminologia da gioco enigmistico). Manipolando il testo di partenza si sostituisce una parola (anche un avverbio polare come più / menoprima / dopo) con un’altra di significato opposto o che comunque dà alla frase un senso non accettabile. Lo studente 
deve capire perché il testo non funziona (obiettivo fondamentale) e sostituire la parola responsabile della contraddizione. Per esempio: «Siamo negli anni in cui il fascismo si consolida in regime autoritario, dà nuova fisionomia alle istituzioni, rafforza le libertà statutarie, e raccoglie, o prova a raccogliere, la varietà di spunti ideologici o letterarî in organica dottrina». Che cosa c’è che non va? La sequenza rafforza le libertà statutariecontraddice, prima ancora che la realtà, il contesto linguistico: se il fascismo diventa un regime autoritario e cambia le istituzioni preesistenti, come può rafforzare le libertà sancite dallo Statuto albertino? In effetti Irti aveva scritto «abolisce»: ma non serve che lo studente risalga esattamente al verbo originale (sarebbero stati accettabili annulla,reprimesovverte e anche indebolisce); l’importante è che individui il punto in cui la coerenza testuale non tiene.
Infine, ecco un esercizio che valorizza la confidenza col dizionario, o meglio col suo stile lessicografico. Si tratta di partire da una definizione e individuare la parola pertinente (anche qui non sarà sempre possibile fare centro, ma avvicinarsi al bersaglio è un obiettivo realistico): «Rifiutate le teorie giusnaturalistiche di diritti ?, o diritti dell’uomo in quanto uomo, la sovranità statale si presenta originaria e incondizionata». Definizione dello Zingarelli 2011 per l’elemento omesso, qui rappresentato dal simbolo ? (sostituisco il singolare col plurale per adattarlo al contesto): ‘che si hanno per natura e non vengono acquisiti con l’educazione o con l’esperienza’. Risposta: innati(accettabile anche naturaliconnaturati e insiti potrebbero funzionare come semantica, ma presuppongono una reggenza: connaturati a..., insiti in..., non un uso assoluto). Se si ritiene la risposta troppo difficile, ma non si vuole rinunciare a familiarizzare lo studente con un concetto comunque molto importante come questo, si può ricorrere a “facilitazioni”, proprio come nelle parole incrociate: per esempio, «di sei lettere».
Il richiamo all’enigmistica non è casuale, ma risponde a una precisa strategia didattica. Del resto, l’utilità del gioco è ben nota ai matematici del passato e del presente, da Leibniz e Peano a Federico Peiretti. Venendo alla linguistica, si deve ricordare il linguista italo-canadese Anthony Mollica, che ha impostato su questo principio il proprio sistema didattico per l’insegnamento dell’italiano lingua seconda, scrivendo un manuale di Ludolinguistica. Spunti utili in proposito possono venire non solo da note riviste (come la celebre «Settimana enigmistica», veterana del settore), ma anche da trasmissioni televisive. In particolare in una di queste, trasmessa dalla RAI in varie edizioni dal 2007, Reazione a catena, i giochi proposti sono squisitamente linguistici: si tratti di reintegrare le lettere mancanti in una parola (un classico cloze); di indovinare una parola attraverso la definizione che scaturisce dalle battute di due compagni che devono evitare di pronunciare quella parola o suoi corradicali (è il gioco di società noto come Taboo; «Cosa non è largo?» «Stretto»: ricerca dell’antonimo, diremmo noi in questo caso); o infine, nel gioco che dà nome al programma, di ricostruire la parola mancante in una catena puntando su meccanismi vari. Così tra segno e attimo, la parola cominciante per c sarà cogliere, legata a due collocazioni tipiche (cogliere nel segno ecogliere l’attimo); tra attimo gloria, la parola cominciante per m sarà momento, sinonimo della prima e legata a una collocazione tipica con la seconda («è il suo momento di gloria») e via dicendo.
I giornali propongono vari tipi di sudoku: “facile”, “medio”, “diabolico”. Anche gli esercizi suggeriti in questo libro sono differenziati (senza scomodare il demonio). Ma la griglia non può essere rigida: ogni studente ha la sua storia culturale e scolastica; e ogni classe è diversa dalle altre: sarà l’insegnante a scegliere il testo di volta in volta più adatto, o magari a ritagliare da un giornale un articolo che si presti alla lettura critica degli alunni, prendendo spunto da quelli qui proposti per inventarsi qualche esercizio più o meno ludico.
Lo studio è una cosa seria, non necessariamente seriosa. E se, come diceva Deng Xiaoping, non importa di che colore sia il gatto purché catturi i topi, l’accrescimento della padronanza linguistica può ben passare anche attraverso il gioco.

sabato 19 novembre 2016

METODO DI STUDIO: una strada a tre corsie

Continuo  a scrivere sul metodo di studio, (post precedente (http://dauriaconsulenzaeprogettazione.blogspot.it/2016/11/insegnamento-e-metodo-di-studio-alcune.html), proprio perché esso è flessibile, trasparente, collegiale, creativo è pluridirezionale:  presenta un'ampia e complessa gamma di elementi e direzioni. 
Per descriverlo si può partire immaginando il metodo come una strada a tre corsie (metodo significa appunto lungo, attraverso, oltre la strada).
Si potrebbe chiamare la prima: "corsia della posizione studente".
Essa comprende un complesso di itinerari, in cui lo studente scopre e verifica che, alla base di ogni apprendimento e di ogni attività di studio, c'è una scelta di situazione o gesto mentale o presa di posizione: la posizione di colui che vuole imparare.  
Sono gli itinerari motivati dell'educazione all'attenzione, alla domanda, all'ascolto, allo stupore, allo sviluppo di motivazioni intrinseche, senza le quali è impossibile un metodo di studio efficace e personale. 
Sulla legittimazione di questo tratto di strada dirò più avanti parlando della radice dello studio e della motivazione intrinseca.
La seconda corsia è quella del comportamento, quella in cui lo studente percepisce, comprende e compie scelte di stile di vita adeguato al raggiungimento del fine e alla sua dignità di persona, cioè di soggetto dotato di affettività e ragione.
In questa corsia sono privilegiati i percorsi di educazione allo "studio come lavoro". 
Praticamente gli studenti e gli insegnanti sono impegnati a ricercare e vagliare i criteri della   pianificazione delle attività e a progettare un spazio di studio dentro una gestione realistica del tempo. 
Sono, inoltre, mobilitati all'acquisizione delle buone abitudini di studio (affrontare le difficoltà, gestione dell'ansia e degli insuccessi, autocorrezione), all'assunzione di regole di igiene fisica e mentale.
La terza corsia è relativa alle operazioni e alle tecniche: alle strategie e alle abilità della lettura, della comprensione, della memorizzazione, della rielaborazione. 
Solitamente si scambia questa corsia con l'intera strada. 
E' questa una riduzione inaccettabile, in quanto, lo studio riguarda la totalità della persona e il metodo di studio non esiste in astratto, ma nell'azione di un soggetto impegnato ad apprendere, sapere, conoscere.  

INSEGNAMENTO E METODO DI STUDIO: alcune precisazioni.


Esiste un metodo per imparare e non coincide per ciascuno di noi ma è differenziato, in quanto personalizzato, cioè personale, efficace ed  efficiente... 
Insegnare a studiare vuol dire  facilitare una simile esperienza con  occorrenze educative e adeguate al tipo di scuola e al tipo di studente. il Metodo implica ragioni e passi coerentemente allo stile, alla dignità, all'intenzione del soggetto nell'incontro con l'oggetto di studio.
Non si sottolineerà mai abbastanza una verità didattica elementare: il vero docente insegna proponendo un metodo di studio,  e  propone un metodo insegnando, giorno dopo giorno, in modo implicito ed esplicito, facendo ricorso ai mezzi, alle risorse, agli obiettivi della propria disciplina. 
Insegnare a studiare non é un optional: un'attività superflua e accessoria all'insegnamento delle discipline; un settore di competenza  di alcuni docenti... i più volenterosi..., i più "aggiornati"..  E', a mio parere, invece,  una necessità educativa, didattica e professionale, soprattutto oggi.
Insegnare a studiare in modo esplicito e diretto significa programmare interventi razionali finalizzati all'orientamento,  alla  motivazione e al controllo del modo e degli obiettivi dello studio delle diverse discipline, in  un    misto tra regolazione ed autoregolazione nell'apprendimento. (Pellerey, 1990).  Non si abbandona lo studente a se stesso, quasi che le abilità di studio siano un fatto naturale e non una conquista in una situazione di apprendimento-insegnamento. 
Né si dà un metodo, quasi che lo studente nel suo lavoro possa essere sostituito da chi gli vuole più o meno bene. Si propone la ricerca di un  metodo dentro una pratica didattica caratterizzata da flessibilità, trasparenza, creatività, collegialità, pluridirezionalità. 
Flessibilità  vuol dire capacità di commisurare e contestualizzare l'azione didattica tenendo conto dell'esigenze e della struttura cognitiva, meta cognitiva ed affettiva dello studente, della natura delle abilità di studio (abilità di lingua e di pensiero, Boscolo 1986), della disciplina insegnata, del tipo di scuola. 
Trasparenza  è la condivisione  degli obiettivi, dei criteri di valutazione, dei tempi e dei motivi del lavoro che si propone allo studente (agli studenti).  Si tratta di una   doverosa   condivisione, che ha anche il merito di una maggiore efficacia   nello studio. E' infatti dimostrato che gli studenti, ai quali  vengono anticipate e comunicate le modalità e i criteri di valutazione, rendono di più e meglio. ( C. Pontecorvo 1973, pag. 133-135). 
E' trasparente un'azione didattica, che si svolge in un contesto di comunicazione (messa in comune) di metodi, di ipotesi  e di strumenti, un contesto in cui si cerca  il consenso e il coinvolgimento dello studente con la pazienza e la tenacia di una volontà "fraterna" e nello stesso tempo "contrariante" (Lenas). 
Consenso, perciò, motivato, non strappato; coinvolgimento libero, anche se non spontaneo, pazientemente cercato perché si è consapevoli che l'apprendimento è responsabilità che non può essere condivisa ( Novak-Gowin, pag. 23).
Si tratta , in altre parole, di un itinerario negoziato, che superando il dilemma o  "fai come vuoi tu" o  "fai come dico io", diventa il cammino di un volere comune, un volere apprendere insieme (Meireu).   
Per questo si richiede un'azione didattica creativa, poetica,  comprensiva di tecnica, di scienza e di ispirazione; un'azione-gesto di comunicazione "vivente". 
Insegnare a studiare non è compito di alcuni, ma di tutti i docenti, perché l'intenzione di fare apprendere é un proprium della funzione docente (Rebolu, pag73) e non c'è apprendimento senza meta-apprendimento (Novak-Gowin, pag. 24). 
Da qui l'importanza del consiglio di classe, che dovrebbe favorire una sinergia ed organicità di ragioni e di passi a cui partecipano (o dovrebbero partecipare, pena la confusione o la scadimento dell'apprendimento) i diversi insegnamenti e i diversi insegnanti.   
Ecco allora la necessità, all'interno del Consiglio di classe, di un confronto su cosa è (o non é) il metodo di  studio, di una (ri)distribuzione e pianificazione degli interventi  dentro la comunanza di orizzonte pedagogico, metodologico e valutativo da ricercare instancabilmente. 
Non è possibile che ciò che viene costruito da un docente di lettere, per esempio, venga poi distrutto nell'ora di matematica, o viceversa.
La collegialità, di cui parlo, inerente alla funzione docente (a più livelli: educativo, didattico, legislativo), si esprime come compagnia in un lavoro comune che si  apre alle agenzie educative del  territorio e, sopratutto, ai genitori.
Dico "genitori"  per la valenza e i presupposti educativi dello studio. Il problema dello studio é un problema di educazione, riguarda l'incontro con la realtà. 
Si insegna a studiare educando allo studio e mediante lo studio ( Mazzeo, 1989 ). 
E sappiamo che non c'è autentica educazione se si censura l'opera della famiglia. 
Certamente il coinvolgimento avverrà  più sulle  basi dello studio, sulle motivazioni e sullo stile di vita dello studente, che sull'insegnamento delle strategie cognitive e delle abilità intellettuali. 
Ma non può né deve mancare.  

sabato 1 ottobre 2016

Cos'è IRC? La devianza e la marginalità. La specificità dell’approccio pedagogico.

Cos'è IRC?
Leggendo su ReteSicomoro l'articolo al link http://www.retesicomoro.it/  mi sono incuriosita ed ho cercato una definizione semplice di IRC.
IRC significa "Internet Relay Chat". È stato ideato da Jarkko Oikarinen nel 1988 e sviluppato in Finlandia, da allora è stato utilizzato in oltre 60 paesi nel mondo. IRC è un sistema di dialogo multiutente, nel quale le persone si incontrano su dei "canali" per parlare in gruppo, , o anche a due, in chat private dette query. Non c’ è alcun limite al numero di persone che possono partecipare ad una discussione o al numero di canali che è possibile creare su IRC. Un server può essere connesso a diversi altri server e a centinaia di client. Esistono molte reti IRC piccole e grandi. Su IRC differenti persone possono entrare sul medesimo canale per “parlare” tra loro. In funzione dell’argomento e dell’ora del giorno un canale può risultare più o meno affollato. I canali possono essere caotici o molto tranquilli. Possono essere aperti a tutti oppure privati: aperti solo a pochi amici. Sulle grandi reti IRC (es.: Azzurra) possono esserci centinaia di canali. I canali su IRC sono dinamici: chiunque può creare un nuovo canale in modo rapido e relativamente semplice ed il tutto è naturalmente gratuito…

Poichè l'argomento è molto interessante lo riporto integralmente nei due articoli pubblicati su ReteSicomoro: buone lettura!!
Alla luce di quanto detto, qual è la specificità dell’approccio pedagogico ai temi del disagio, della marginalità, della devianza? Tale specificità si declina lungo tre direttrici principali, la prima teorica, le altre due metodologiche.
La prima. L’ emancipazione della soggettività del minore disagiato o deviante dalle letture effettuate secondo i paradigmi del “deficit”. Deficit di natura biologica, psicologica, sociologica, criminologica. Ciò non equivale a sminuire l’importanza degli sguardi scientifici delle altre scienze umane o dei fattori familiari, psicologici o sociali nella comprensione dell’eziologia dei fenomeni di marginalità o devianza, ma nel riconoscere che le forme di deprivazione materiali, psicologiche o sociali non sono condizioni necessarie a spiegare perché un ragazzo arrivi a delinquere.
Significa riconoscere alla soggettività personale del minore disagiato, marginale o deviante, il potere di un riscatto e di un’emancipazione dipendente soprattutto dalla sua responsabilità e dalle attribuzioni di significato alla realtà e alle azioni che lo stesso soggetto compie: è lui stesso, insomma, la variabile imprescindibile del modello pedagogico di interpretazione della devianza.
Si tratta di una svolta epistemologica verificatasi dal punto di vista teorico intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso e che fa leva su alcuni cardini di principio imprescindibili: la valorizzazione del soggetto, la promozione del senso di responsabilità, di un agire regolato della libertà, il ripensamento radicale del concetto di diversità, del ruolo attivo e collaborativo del territorio e di tutti i soggetti sociali implicati nel partenariato a una progettazione che incida attivamente sul fenomeno. Nessuno può infatti agire con efficacia da solo, né la scuola, né la famiglia, né le agenzie educative del territorio.
Va però detto che se la formalizzazione epistemologica dell’approccio pedagogico alla devianza e marginalità si fa risalire alla metà del secolo scorso, molte pratiche educative ne hanno anticipato il senso. Mi riferisco, solo per fare un esempio, all’educazione preventiva di don Bosco, testimone di quella pedagogia della ragione e dell’amorevolezza che è uno dei cardini ancora attuali di riferimento paradigmatico per gli educatori.
La seconda. La via perenne della pedagogia del dovere. Non è casuale ricordare la lezione perenne di don Bosco. Don Bosco sceglie di donare la sua vita ai giovani e in particolare a chi vive ai margini, ai ragazzi che i meccanismi dell’esclusione sociale destinavano sin dal XVII secolo al “grande internamento”, come definisce M. Foucault l’operazione di chiusura delle personalità “difficili” nei molti luoghi della correzione istituzionale11.
E’ allora che ha inizio la fase storica della patologizzazione della condizione di devianza e marginalità che finirà per legittimare tutte le pratiche, anche pedagogiche, di repressione, controllo sociale, “normalizzazione”. Nasce così culturalmente la categoria del “diverso”, sanzionata dalla predisposizione del trattamento repressivo-correttivo nonché da una codificazione linguistica minuziosa che etichetta i “tipi” di diversità: lo svantaggiato, l’incorreggibile, l’asociale, il criminale, il folle e così via.
Queste definizioni di ruolo si inverano nelle forme lessicali e linguistiche che alimenteranno la costruzione epistemologica e metodologica di alcuni saperi scientifici a partire dall’800, soprattutto quelli di marca clinico-sociale, che giustificano anzitutto culturalmente l’approccio alla devianza nell’orizzonte della normalizzazione sociale: la psichiatria ma anche la sociologia, la psicologia, la criminologia e parte di quel sapere pedagogico che finirà per ritrascrivere i modelli esplicativi del controllo e della repressione della devianza nel cospicuo armamentario di interdizioni e dispositivi di controllo col quale “trattare” i soggetti a rischio o manifestamente devianti.
In modo specifico la pedagogia ricava la giustificazione della sua collocazione epistemologica nell’orizzonte della normalizzazione dalla lezione herbartiana, che colloca il sapere pedagogico al confine fra etica e psicologia: la prima, con le idee morali, fornisce alla pedagogia i fini e il senso della sua riflessività; la seconda, come “scienza dei mezzi”, offre all’educazione le tecnologie di trattamento della devianza come patologia sociale e individuale insieme.
La strada che viene intrapresa sul piano delle prassi formative del recupero dei marginali e dei devianti specie minori è dunque, almeno sino alla prima metà del XX secolo12, soprattutto quella dell’affermazione della “microfisica del potere”: un potere che agisce in molti luoghi del sociale per trasformare la “devianza” in “convergenza” a modelli di “normalità” e di efficienza /produttività sociale nonché di docilità caratteriale.
In questa direzione il castigo diventa il necessario complemento del formare: si educa punendo, si educa per correggere. Del resto quella della “repressione” è un categoria educativa storica ampiamente declinata nelle istituzioni formative del secolo che fa da sfondo all’azione di don Bosco, l’Ottocento, e lo stesso Giovanni fa un’esperienza personale del metodo “repressivo” in un contesto lontanissimo da quelli manifestamente correzionali: il Seminario di Chieri, dove compirà i suoi studi filosofici e teologici.
Don Bosco invita continuamente gli educatori a saper riconoscere l’unicità, in se stessi e in chi educano, e poiché per essere unici occorre esistere ed essere dotati di libero arbitrio, la missione comune è quella di insegnare ai minori ad usare questa libertà con responsabilità per «farsi buoni cittadini in terra ed essere un giorno fortunati abitatori del cielo»13. Insomma, amorevolezza testimoniata attraverso premura, familiarità, dedizione affettuosa ma che non transige sul “codice dei doveri”: su questo non sono possibili negoziazioni di sorta.
Ed è proprio nella pedagogia del dovere che va rintracciata l’attualità della lezione di don Bosco che interpella problematicamente gli educatori e gli insegnanti del nostro tempo. Le spinte antropocentriche dell’età moderna, pur ridando forza alla soggettività e affermando l’autonomia dell’agire morale, hanno prodotto spaesamento tra i giovani e, qui il problema, li hanno privati di un orizzonte di senso e di valori di una qualche fondatezza.
E poiché i valori sono correlati alla dimensione affettiva e morale, la “depressione del sentimento”14 in atto oggi sta rendendo sempre più problematiche persino le evidenze etiche fondamentali, a tal punto da non far distinguere più chiaramente ai ragazzi ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è buono e ciò che è cattivo.
Per i giovani di questi anni i fini della vita sembrano non riguardare più né il potere, né l’impegno sociale o religioso, né il progetto di una qualche forma di umanità da realizzare, bensì la ricerca del massimo di libertà spaziale e materiale da perseguire al di fuori di qualsiasi senso di responsabilità. E anzi. È sempre più la fuga ad essere scelta. Fuga dissolvente l’appartenenza agli ordinamenti tradizionali del potere: famiglia, scuola, comunità. Fuga dal dovere e dalla responsabilità nei rapporti, che si fermano all’incontro e non giungono all’impegno.
Ecco perché, pur senza ignorare le grandi chance che comunque oggi sono offerte all’educazione dall’era della tecnica, in questo contesto si comprende bene quanto diventi importante recuperare modelli di formazione – e quello di don Bosco si colloca fra questi - che consentano ai giovani di “esperire” le dimensioni dell’affettività positiva, poiché è in queste che si radica ogni forma di altruismo, di responsabilità, di dedizione per l’altro, insomma, di valore. A questo proposito le categorie educative che possiamo trarre dalla modellizzazione di don Bosco in riferimento all’approccio alla marginalità e devianza sono diverse.
Ne indichiamo solo due. La prima recupera il concetto tradizionale di autorità educativa, oggi fortemente in crisi proprio in quei settori (e la scuola è fra essi), laddove l’autorità era stata sempre accettata come una necessità naturale, richiesta sia dall’evidente incapacità dell’educando di saper provvedere a se stesso, sia dall’esigenza di assicurare la permanenza della civiltà fornendo ai nuovi nati una guida per orientarsi in un mondo che li accoglie da analfabeti.
Ebbene, poiché l’autorità esige l’obbedienza, in seguito a un’interpretazione per lo più dogmatica di alcuni principi della psicologia moderna e di teorie pedagogiche progressive, a un certo punto essa è stata scambiata come un mero esercizio di potere, nei riguardi degli educandi, soprattutto dei meno dotati. Eppure l’autorità esclude qualsiasi forma di coercizione: laddove si impiega la forza, infatti, l’autorità ha fallito15.
Le conseguenze sono state che gran parte degli educatori, per evitare di incorrere in critiche, ha finito con l’abolire progressivamente tutti quei comportamenti equivocabili come autoritari (o autoritaristici): per esempio rinunciando ad applicare principi meritocratici di gestione dei gruppi-classe (perché imponenti sulla base dei talenti, una separazione materiale tra allievi bravi e non bravi inaccettabile entro una democrazia egualitaria quale la nostra); oppure annullando le distinzioni tra gioco e lavoro a tutto vantaggio del primo; o ancora consentendo agli studenti, col pretesto di volerne rispettare l’indipendenza e rinforzare l’autonomia, forme di autogoverno impossibili da gestire.
O, ancora, mettendo in atto concessionismi “fuori misura” per espungere dal percorso formativo qualsiasi forma di frustrazione e di sforzo. Concorrendo così ad alimentare un’impropria correlazione tra diritto allo studio e diritto alla promozione. E’ ovvio che tale processo di parificazione dei meriti e dei ruoli e di semplificazione degli itinerari formativi si è realizzato a spese dell’autorità dell’insegnante, che ha perso di credibilità.
Si tratta, dunque, di recuperare senza equivoci nella scuola il principio dell’autorità educativa che richiama, come è noto, quello della responsabilità nei confronti delle nuove generazioni anche perché, come scrive H. Arendt, «nell’educazione l’assumersi la responsabilità si esprime attraverso l’autorità»16. Cosa implica questo impegno sul piano delle concrete prassi educative? Anzitutto esso comporta il proporsi agli allievi come maestri di vita e testimoni del bene, il favorire nelle classi l’esperienza del valore e l’attestarla, mostrarla e indicarla, a cominciare dai propri comportamenti, come motivo d’azione.
Comporta il riabilitare lo sforzo nello studio e la fatica dell’apprendere; il riconoscere e dare il giusto compenso ai meriti; il premiare ma anche il punire; il dare direzione e sbocco alle forze emotive armonizzando adeguatamente gli spazi del dialogo con quelli della distanza emotiva. E ancora comporta il rispetto profondo, da parte dell’educatore, per la tradizione e la cultura perché, sovrattutto nell’infanzia, il rispetto per queste ultime risiede solo nel riconoscimento attribuitogli dalle persone che più si amano.
I ragazzi, infatti, apprendono ad amare o a rifiutare quanto viene amato o rifiutato dalle persone che sono loro più vicine. È per questo che autorità educativa e professionalità non sono identificabili. Si può diventare bravi insegnanti ma esseri pessimi educatori se non si riesce a radicare nei propri allievi il senso della vita, il che avviene solo se li si ama a tal punto «da non estrometterli dal mondo lasciandoli in balia di se stessi»17. La seconda categoria pedagogica che recuperiamo dalla lezione di don Bosco è quella della amorevole reciprocità.
Essa si configura in un impegno e in un’organizzazione educativi finalizzati ad aiutare l’allievo a fare l’esperienza relazionale della sollecitudine, con e per gli altri. Don Bosco ne fa fare esperienza concreta in tutte le comunità del suo sistema collegiale, da Valdocco a Mirabello Monferrato ecc. laddove l’amorevolezza diventa “amore dimostrato”18ovvero affettivo ed effettivo, attestato dai fatti, percepibile e “percepito”.
Ed è in base a questo principio che oggi il luogo dei valori non viene più situato nelle cose in sé (i cosiddetti “beni”) o nei soggetti in sé (e nei suoi desideri), bensì nelle relazioni, nei rapporti che affettivamente legano le persone e le rendono reciprocamente importanti.
Uno stile relazionale disconfermante, impositivo, colpevolizzante, ostacola il realizzarsi di un “clima” educativo favorevole per gli apprendimenti e la comunicazione, così come all’opposto, uno stile relazionale empatico, oblativo, coinvolgente, affettivamente pieno, orientato all’ascolto, incoraggia negli allievi il senso di sicurezza interiore, la fiducia in sé e negli altri, lo spirito di iniziativa e il consolidamento di sentimenti positivi.
E’ insomma una pedagogia del “possibile” quella di don Bosco, resa tale dal riferimento a categorie e stili che saranno ripresi e tematizzati da tante teorie novecentesche dell’educazione e che don Bosco pone a fondamento di un’azione basata sulla convinzione che è attraverso ragione ma anche relazione e amorevolezza che si educa.
Come si può constatare, dunque, l’educazione preventiva non è diversa dall’educazione in genere: le finalità restano identiche. E se per gli educatori le difficoltà si fanno senz’altro più gravi quando le condotte si configurano come reati, molto può essere fatto nella direzione del rimuovere tutto ciò che, in determinate circostanze, può condurre al comportamento deviante.
Ed è qui, nell’ambito della prevenzione che il ruolo della scuola si fa determinante: per evitare che disagio e marginalità finiscano col trasformarsi in devianza. È il modo in cui gli adolescenti sperimenteranno il processo di scolarizzazione che risulterà importante per “regolare” la futura intenzionalità del minore ad accettare le leggi e le autorità formali oppure ad uscire dal circuito dell’istruzione ed esporsi ai fattori di rischio che ne possono scatenare la condotta deviante.
Gli adolescenti che vivranno nella scuola un’esperienza poco gratificante svilupperanno un atteggiamento di sfiducia e di sfida prima nei confronti delle regole scolastiche, dopo nei riguardi di quelle sociali. In antitesi al sistema formale, che rifiutano, costruiranno con i coetanei che vivono le stesse esperienze una sorta di ambiente alternativo (anche all’interno della stessa scuola!) in cui vigono le regole elaborate dal gruppo e dove si assumono ruoli diversi, trasgressivi, lontani da quelli stabiliti dall’ordinamento sociale.
La terza. La delineazione chiara del compito della scuola e degli Idr, agire preventivamente nel rapporto fra il soggetto e l’ordine istituzionale: il rilievo della progettazione partecipata. Con le Leggi 285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” e 328/2000: “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, sono cambiate le regole della programmazione degli interventi per affrontare marginalità e devianza e si sono moltiplicati i soggetti che operano in termini di costruzione di politiche minorili integrate per il proprio territorio.
Se la prima legge ha inaugurato nel settore pubblico la modalità operativa della progettazione secondo una logica di rete, la legge 328 ha incrementato questa possibilità attraverso lo strumento della progettazione partecipata. Co-progettare significa essere partecipi in tutte le fasi di costruzione dell’itinerario di prevenzione: e infatti la progettazione partecipata si caratterizza come percorso circolare, fondato sulla continua interazione tra gli attori, sia nel prefigurare il percorso, sia nel valutarlo, sia nel ridefinirne gli obiettivi e riorientarne le attività.
Lo strumento principale per tale progettazione è il Piano di Zona: in esso si richiede di esplicitare e mettere in comunicazione tutto ciò che un territorio può offrire sul piano di una prevenzione delle condotte devianti e un posto di primo piano nell’analisi dei bisogni e nella indicazione di obiettivi lo occupa la scuola.
La coerenza dell’impegno professionale dell’Idr si sostanzia nelle fasi di delineazione degli obiettivi della progettazione partecipata, ribadendo la fedeltà alla fondazione antropologica che qualsiasi progettazione dovrebbe mantenere e, all’interno della scuola, nel contributo alla prevenzione secondaria che da quest’anno può giovarsi di una nuova risorsa curricolare: l’ambito disciplinare di Costituzione e Cittadinanza.
 Loredana Perla
 (articolo tratto da www.chiesacattolica.it) 

11 «E’ sorto il giorno in cui quest’uomo, partito da tutti i paesi d’Europa per uno stesso esilio verso la metà del XVII secolo, è stato riconosciuto come straniero dalla società che l’aveva cacciato e come irriducibile alle sue esigenze; egli allora è diventato, per il più gran conforto del nostro spirito, il candidato indifferenziato a tutte le prigioni, a tutti gli asili, a tutte le punizioni», M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, tr. it., Rizzoli, Milano 1992, p. 85.
12 Dobbiamo infatti arrivare al ‘900 perché il sapere pedagogico si liberi dal pregiudizio moralistico e cominci ad affrontare i fenomeni della devianza e della marginalità attraverso paradigmi interpretativi polireferenziali sul piano scientifico e non repressivi sul piano delle ricadute nelle prassi. Ancora nel 1934 la legge 1404 che istituisce il Tribunale per i Minorenni, pur esprimendo attenzione verso la realtà giovanile alla quale viene riconosciuta una problematicità specifica, è pur sempre la “cifra” ulteriore di una “visione” che subordina le funzioni rieducative a istanze di controllo e di repressione in quel momento rappresentate anche politicamente dalla dittatura del regime fascista. E’ solo nel 1956, con una modifica sostanziale della legge 1404 (il provvedimento n.888/1956) che comincia a cadere, almeno in linea di principio, la concezione ottocentesca di un intervento finalizzato essenzialmente al trattamento correzionale del minore, per accogliere gli esiti delle ricerche e degli studi che nel campo delle scienze umane avevano nel frattempo evidenziato la connessione tra ambiente sociale e comportamenti devianti. Si determina in tal senso un significativo passaggio sul piano degli interventi verso quel sistema di rieducazione che legittima il principio secondo cui non si può prescindere nell’azione educativa dalla valorizzazione del soggetto e del suo ruolo attivo in un processo di reinserimento che risulta inefficace quando basato soltanto su azioni coattive.
13 G. Bosco, Il giovane provveduto, pp. 5-8.
14 Ibidem, p. 666.
15 «L’autorità sui cuori ci è consentita, non la si estorce; e chi la pretende, non l’ottiene. Guai se chi educa lascia da alcun atto o da alcuna parola trasparire ch’egli vuol vincolare quel libero arbitrio, che è la proprietà nostra più cara; o avvilire quella dignità, che Iddio ha stampata in fronte all’umana natura! Contro così fatta propensione, anche solo temuta, solo anche immaginata, si sollevano le potenze tutte dell’educato, e si mettono a guardia della sua assalita indipendenza. Egli sa bene, o sente confusamente che l’autorità educatrice, com’io già diceva, è un’autorità che deve soccorrerlo e dirigerlo, non soggiogarlo: si sottomette volenteroso finché l’autorità si contiene fra’ suoi confini, e adempie (severa anco, ma non passionata) al suo ufficio nativo; si rivolta contro di lei, o non potendo rivoltarsi freme mordendo il freno, quando ella mira a signoreggiarlo, e cerca nel comando il diletto del soprastare […] Lasciate che la compiacenza di sottomettere, che l’orgoglioso disdegno di parere inferiore, che la superba insofferenza d’essere contraddetto, vi entri nel cuore; e vi so dir io, che non v’è speranza per voi di far vostro il cuore del fanciullo o del giovane che voi pretendete d’educare. Egli si è chiuso, egli vi ha scacciato da sé; vi considera come nemico e vi combatte. La vostra non è più una direzione paterna, è una contesa, nella quale voi sarete materialmente il vincitore, perché avete per voi la forza; ma sarete moralmente vinto, perché il vostro potere sulla volontà del giovane sarà distrutto […] Così dev’essere quando noi ammoniamo, consigliamo e comandiamo: il giovane deve anco allora cedere non alla nostra arbitraria volontà, ma alla stima che ha per noi, all’amore per la virtù e per il proprio bene: in una parola egli anche allora dee ponderare e volere. E nel far appunto ch’ei voglia quel che noi ragionevolmente vogliamo, sta veramente la notra morale autorità», R. Lambruschini, Dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1943, pp. 64-65.
16 Ibidem, p. 247.
17 Ibidem, p. 255.
18 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, pp. 461-462, 471-472 citato in P. Braido, Prevenire non reprimere, LAS, Roma 2000,p. 292.

La specificità dell’approccio pedagogico.
Qual è la specificità dell’approccio pedagogico ai temi del disagio, della marginalità, della devianza? Tale specificità si declina lungo tre direttrici principali, la prima teorica, le altre due metodologiche...
Disagio, marginalità, devianza: si tratta di lemmi che ricorrono frequentemente nel linguaggio comune e nella letteratura scientifica con attribuzioni di significato plurime. Per tale ragione è opportuno avviare il discorso con un essenziale chiarimento terminologico-concettuale, al fine di ridurre le ambiguità interpretative.
Cominciano col termine marginalità. Esso viene da “margine”, indica dunque qualcosa che non è al centro, intendendo per “centro”, in senso latamente culturale (storico, sociale, pedagogico) il punto di riferimento e di orientamento delle condotte della maggioranza delle persone. Un centro costituito dall’insieme di saperi, valori, atteggiamenti, costumi, identità, modelli di comportamento che la storia della cultura tramanda di generazione in generazione attraverso l’educazione e l’istruzione dei giovani. L'“adeguamento” ai contenuti di questo “centro”,diversi a seconda delle culture, è strumento fondamentale per favorire lo sviluppo integrale del singolo ma anche per realizzare e mantenere la coesione e l’ordine sociali. Il marginale è colui che si trova in una condizione di esclusione da tale “centro”, o perché tale condizione è stata intenzionalmente scelta o perché vi si è ritrovato suo malgrado, magari a un certo punto dell’esistenza, senza averlo intenzionalmente voluto.
«A fronte della pagina principale, codificata (i marginali costituiscono, n.dr.) una pagina secondaria, disordinata, che segue criteri diversi e divergenti»1. La marginalità è dunque una mancanza di integrazione e, se la si deve studiare, occorre farlo considerandola come un fenomeno opposto a quello dell’inclusione. E le forme di mancata inclusione oggi sono tante, legate a variabili economiche, culturali, sociali, psicologiche, educative.
Vi sono ad esempio le marginalità sociali prodotte dall’uso indiscriminato del potere economico che crea povertà inattese in singoli Stati (come nei casi delle famiglie ridotte sul lastrico dalla crisi statunitense dei mutui subprime) o le marginalità presenti a livello globale nelle moltissime sacche di povertà del terzo e quarto mondo. O le marginalità diffuse trasversali a vari gruppi sociali non integrati come le comunità di immigrati clandestini o di immigrati “regolarizzati” ma di fatto esclusi dai processi di partecipazione politica che forniscono identità e riconoscimento. Vi sono poi le marginalità culturali prodotte dal mancato riconoscimento dei diritti e delle pari opportunità quali quelle che toccano la condizione femminile e dell’infanzia in innumerevoli luoghi del pianeta. Ed esistono le marginalità scolastiche dell’allievo “studioso” escluso dal gruppo perché troppo “secchione” o dell’allievo svantaggiato portatore di modelli sociali a rischio di devianza che cozzano con quelli proposti dalla scuola.
Questo solo per dire che la marginalità va considerata un concetto relativo. Non esiste una marginalità in sé, come condizione a sé stante, ma esiste una marginalità rispetto a qualche cosa: marginali lo si è rispetto a un determinato contesto, per cui il recupero del marginale può avvenire facendo leva sia sulla formazione dello stesso soggetto, sia sulla “correzione” di alcuni aspetti del contesto stesso che “espelle” il soggetto rendendolo vulnerabile e ponendolo in condizione, appunto, di marginalità.
Anche in relazione al disagio il discorso va declinato al plurale perché in una società complessa qual è la nostra il disagio si caratterizza sempre più per una varietà crescente di manifestazioni. In questa sede approfondiremo soltanto la condizione del disagio minorile o giovanile, alludendo chiaramente a una fase peculiare del ciclo di vita: quella che va dalla preadolescenza (10-14 anni circa) all’adolescenza (15-18) sino alla giovinezza (19-25 e oltre).
Entro queste fasce di età emergono infatti più frequentemente i segni del “disagio giovanile”, spesso già latente nell’età pregressa dell’infanzia, e che la condizione adolescenziale slatentizza facendo emergere manifestamente eventuali difficoltà a integrare e controllare pulsioni e conflittualità legati alla maturazione biologica e a vissuti remoti di esperienze negative.
L’esito positivo di questi conflitti, come insegna la riflessione psicanalitica, porterà alla formazione del carattere e dell’identità di genere ma nei casi di esito negativo, all’emergere di sintomi nevrotici, oggi più diffusi probabilmente anche perché è più difficile per gli adolescenti assumere i genitori come modelli validi di identificazione in ragione della crisi di testimonianza educativa che coinvolge il mondo degli adulti.
Di contro va pure detto che le letture un po’ stereotipate della condizione adolescenziale sono state messe in discussione a partire dagli anni ’60 dagli studi evolutivi che preferiscono descrivere quest’età come fase di transizione vissuta nell’impegno di superamento dei cosiddetti “compiti di sviluppo”2, piuttosto che come fase disagiata tout court implicante necessariamente crisi drammatiche di vario tipo.
Il disagio, dunque, sarebbe null’altro che l’irrequietezza e l’inquietudine effetto degli sforzi del giovane di rispondere ai suddetti compiti di sviluppo, inevitabili nella vita di qualsiasi adolescente, che con essi è obbligato a misurarsi:
a) “compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà e il risveglio delle pulsioni sessuali;b) compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo;c) compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé).
La discussione sui compiti di sviluppo ha aperto la strada allo studio delle modalità di coping, cioè di quanto l’adolescente riesce a investire di sé per costruire la propria identità, “facendo fronte” ai compiti di sviluppo che incontra”3.Ciò non vuol dire negare la presenza di problematiche severe di disagio che il genitore o anche l’insegnante più preparato spesso si trovano a dover fronteggiare in solitudine e con senso di impotenza. A volte certi segnali non vengono riconosciuti. E invece possono essere segnali aspecifici di disagio da non sottovalutare. Qualche esempio:
1. un improvviso ed evidente peggioramento dell’andamento scolastico;2. mancata resilienza con incapacità di far fronte alle difficoltà quotidiane;3. un cambiamento marcato nel ritmo sonno/veglia o nell’alimentazione;4. lamentele sistematiche per piccoli problemi fisici (mal di testa, mal di pancia, etc.);5. persistenza di umore negativo;6. abuso di alcool o droghe;7. paura di ingrassare;8. incubi persistenti;9. minacce di comportamenti dannosi per sé o per altri;10. autolesionismo o comportamenti distruttivi;11. minacce di fuga o di suicidio;12. violazione di regole e dei diritti degli altri, opposizione all’autorità; furti o vandalismo.
Si aggiunga la tendenza della nostra società a disconfermare l’adolescente nel suo desiderio di essere adulto per lasciarlo spesso in una condizione di subordinazione e dipendenza prolungate. Ne derivano insicurezze, mancati sviluppi dell’autostima e della capacità di resilienza, ovvero della capacità di saper affrontare la frustrazione e i disagi che ne conseguono senza farsi travolgere dallo scoraggiamento.
Oppure di mancato sviluppo del sé reale4, per cui l’adolescente non matura la capacità di reagire alle sfide della realtà con atteggiamento assertivo e manifesta condotte da falso-sé: passività, ipercontrollo, eccessivo spazio lasciato agli altri ecc.
Spesso i prodromi di queste problematiche si palesano sin dalla scuola dell’infanzia, nei piccoli disagi legati all’incapacità del bambino di superare la separazione dalla mamma per inserirsi nel gruppo-classe o nel rifiuto totale della scuola. L’intervento preventivo che può contrastare lo sviluppo patologico di tali segnali comportamentali si colloca sempre nell’ordine della relazione incoraggiante,della modulazione sapiente dell’affettività, di un atteggiamento educativo che sappia dosare dolcezza e fermezza in modi tali da contenere l’angoscia ma anche da promuovere l’autonomia5. E veniamo al termine devianza. Il significato peculiare nella sua estensione massima è di “scostamento o trasgressione rispetto a tutto ciò che costituisce la ragione e la base di un ordinamento sociale”6.Il significato peculiare nella sua estensione relativa, invece, alla fascia di età minorile è quello di fenomeno riguardante ragazzi e ragazze le cui condotte risultano dissonanti rispetto a un certo modello di competenza sociale e che per questo marcano la diversità di chi ne è protagonista rispetto ad altri7.
Un deviante è generalmente chi non rispetta le norme del vivere civile, anche se può accadere che nei comportamenti etichettati come devianti possano ritrovarsi elementi di originalità non condivisi dalla pubblica opinione e poi, magari a distanza di tempo, riscoperti come innovativi o creativi (è il caso di molte produzioni artistiche). Alcune teorie sociologiche hanno però fatto chiarezza in proposito. In particolare la teoria delle minoranze attive (Moscoviti, 1976) distingue fra devianza distruttiva e devianza innovativa.
Perché ci sia devianza innovativa è necessario che un gruppo minoritario, a causa del proprio essere in polemica con l’ordine esistente, non si limiti a protestare ma elabori «una nuova e alternativa definizione di realtà impegnandosi ad agire per trasformarla in una realtà concreta.Fra l’azione della minoranza attiva e quella dei devianti tout court esiste una differenza radicale che riguarda l’atteggiamento verso i confini della moralità:mentre nel primo caso si mette in atto uno sforzo per spostare (modificare, to move) tali confini, nel secondo caso non si rispettano i limiti che pure sono conosciuti»8.
E dunque accade che un adolescente con un disagio si ritrovi a non saper più gestire le tante ambivalenze della sua età ed entri nel circuito della devianza distruttiva. Il reato a quel punto diventa lo strumento di comunicazione del malessere del percorso evolutivo di superamento di tali ambivalenze. Numerose sono le manifestazioni di condotte devianti.
Negli ultimi anni alla devianza di tipo tradizionale si sono aggiunte nuove tipologie: quella dei ragazzi della mafia e dei ragazzi stranieri da un lato; il malessere del benessere, il bullismo (nelle più recenti manifestazioni che fanno parlare di “nuovo bullismo”) le condotte degli ultras e dei naziskin dall’altro. In Italia l’intervento legislativo concernente il processo penale a carico di imputati minorenni, risalente al 1988 (D.P.R.448/88 e dlgs 272/89) coniuga il principio sanzionatorio con quello del recupero del soggetto: anche il processo dovrebbe costituire occasione di promozione e ri-educazione dei ragazzi “irregolari”.
Tutto questo per dire che il fenomeno della devianza adolescenziale non può essere accostato soltanto attraverso teorie esplicative psicologiche che tentano di spiegarlo nei termini di una sindrome da deficit di “regolatori interni” o teorie esplicative sociologiche che leggono il fenomeno come l’esito di una socializzazione non riuscita.
Tali teorizzazioni condividono un assunto di base che ne costituisce il “limite”: che la devianza sia il prodotto di forze alla quali il soggetto è incapace di resistere. E invece, come studi sempre più numerosi attestano, la devianza si origina da una scelta precisa di coerenza: «come chi opera nella legalità tiene ad apparire di fronte a tutti come un cittadino che rispetta la legge, l’individuo che si è identificato in un ruolo di deviante vuole mostrare al suo pubblico che non deflette dall’orientamento che ha preso»9.
Il deviante insomma, spesso sceglie di esserlo e la correlazione statistica fra devianza e appartenenza socio-culturale va circoscritta a un numero limitato di reati. Di qui la specificità dell’approccio pedagogico all’interpretazione della devianza che guarda al minore come persona della quale occorre anzitutto riconoscere la centralità e il contributo soggettivo nella costruzione della devianza10. Loredana Perla
(articolo tratto da www.chiesacattolica.it) 
S. Ulivieri, L’educazione e i marginali. Storia, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione, La Nuova Italia, Firenze 1997, p.3.R.J. Havighurst, Human development and education, Longmans Green, New York 1953F. Montuschi, A. Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Edizioni Devoniane, Bologna 2006, p. 34.J. F. Masterson, Il sé reale. Relazioni oggettuali, psicologia del sé, psicologia evolutiva, Astrolabio, Roma 19975 L. Perla, Educazione e sentimenti. Interpretazione e modulazioni, La Scuola, Brescia 20026 D. Izzo, A. MannucciI, M.R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, Edizioni ETS, Pisa 2003P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze2004, p.108 N. Eemler, S. Reicher, Adolescenti e devianza, tr. it., il Mulino, Bologna 2000, p.IX.Ibidem, p.XV.10 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento,cit., 34.




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